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Racconto della domenica: “Costanza” di Simone Laudiero

La vacanza insieme: per molte coppie, la prova suprema della riuscita o del fallimento di un rapporto, pensa Roberto, bloccato in mezzo al mare con una Costanza inferocita. Costanza è la sua fidanzata, che al momento lo odia per qualcosa che lui neppure ricorda di aver detto (e che forse ha molto a che fare col caldo e col sole di quell’agosto marocchino che li arrostisce senza pietà). Cosa può fare Roberto, confinato negli spazi angusti del battello verso Napoli? Lasciare Costanza coi bagagli e fuggire il più lontano (non molto), mentre lei si abbrustolisce al sole. Ma proprio durante quella sortita esplorativa, a sorprenderlo è il suo passato. E Roberto proverà quella vaga vertigine di quando ci si rende conto che la vita è come le onde dello stesso colore degli occhi di Costanza.

Racconto della domenica: “Costanza” di Simone Laudiero

I gabbiani sulla scogliera sembra che facciano l’halfpipe

Lo dice a Costanza, che gli domanda che cos’è un halfpipe. È quel pezzo di tubo tagliato a metà su cui si va con lo skateboard per fare le acrobazie. I gabbiani attaccano le mura, si impennano sulle correnti d’aria, sfrecciano oltre le merlature e si fermano in aria. Scrutano gli scogli sottostanti, poi lentamente si lasciano cadere e planano verso la preda, o forse verso un’altra corrente d’aria. Salgono e riscendono, proprio come gli skater. Costanza gli fa un mezzo sorriso e si rimette a guardare il mare. 

La sua faccia vuol dire, che ti ho portato a fare da Napoli fino a Essaouira, qua che anche Jimi Hendrix ci veniva in vacanza, forse si piazzava proprio su questo molo a guardare il mare, gli scogli, i gabbiani, il forte arabo, la città vecchia, e tu mi dici questa cosa sullo skateboard. 

D’altro canto anche a Roberto dello skateboard non gliene frega niente, ha fatto quindici chilometri a piedi con lo zaino sulle spalle ed è stanco. Si siede contro la parete, abbraccia lo zaino e aspetta. In Marocco un negoziante che ti presta una sedia pieghevole lo trovi sempre, ma stasera proprio non è cosa. 

La nave arriva che è notte, non la vedono neanche mentre entra in porto. La banchina è praticamente al buio, ci sono solo due luci ad altezza d’uomo ai lati della rampa, tanto per non far cadere in acqua i passeggeri mentre sbarcano. 

È un vecchio traghetto con le murate bianche e due file di vetrate illuminate, a sei o sette metri dalla linea di galleggiamento, un alone da illuminazione stradale che corre tutto intorno ai ponti scoperti, giallo nell’aria umida della notte. 

La fila ha l’andatura di una scolaresca che entra in classe la mattina. Roberto e Costanza seguono i marocchini sul ponte d’imbarco, si infilano in una porticina a destra e su per una rampa di gradini antisdrucciolo fino a un pianerottolo arredato come l’anticamera di una salumeria. Verso prua ci sono altre scale che riscendono ma l’accesso è bloccato da una corda, si andrà in sala macchine. Verso il centro c’è una doppia porta a vetri, e dietro il salone passeggeri, arredato anni Settanta, vecchio ed elegante, ben illuminato e troppo affollato. Roberto si aspettava che i marocchini volessero stare al fresco, e invece si sono tutti ammassati lì, qualcuno già inizia a fumare. Anche Costanza vorrebbe fermarsi nel salone anni Settanta ma Roberto sente il richiamo dell’aria di mare ed esce. 

Lei lo segue, poi si ferma e appoggia lo zaino. Roberto pensa che stia soffrendo il caldo, e che stare fuori le farà bene, così fa il gesto di prendere anche il suo zaino. 

Lei rifiuta, ma prende il gesto come il segnale che si può ricominciare, e gli dice che comunque non aveva diritto di parlarle in quel modo. 

Roberto non sa neanche a che cosa si riferisca. Non lascia andare lo zaino ma se lo carica davanti, e si avvia verso la scala che porta al secondo ponte. Costanza lo segue in silenzio. 

I sedili sono bauli di vetroresina bianca con uno schienale largo quattro dita. Ne prendono due, li occupano con i bagagli e Costanza si prepara per la notte. Forse dovrebbe farlo anche Roberto finché c’è il porto che fa luce, ma non ne ha nessuna voglia. Resta fermo, prende fiato e guarda lei che si concentra e fa attenzione come se stesse frugando nel bagaglio di qualcun altro. 

Le dice che va a prendere un po’ d’aria. Lei domanda a che ora arriveranno la mattina dopo. Dieci e un quarto. Costanza chiude gli occhi mentre fa il conto. Sono sei ore di sonno, dice, è meglio mettersi subito a dormire. 

La lascia lì e va ad affacciarsi per guardare la nave che parte. Se adesso si sdraiano vicini, litigano fino all’alba. 

L’ha lasciata sola con i bagagli di modo che, se anche volesse raggiungerlo, non potrebbe. Da lontano Costanza ha gli occhi enormi e luminosi come un gufo e li tiene puntati su di lui. Se dipendesse da lei litigherebbe davvero fino al giorno dopo ma Roberto non ne può più. Preferisce guardare i portuali che lavorano e per cinque minuti fare finta di essere in viaggio da solo. 

I fari delle auto illuminano la rampa a intervalli regolari. L’imbarco è lentissimo, nessuno sa cosa sia la fretta. Le automobili sono poche ma le ruote fanno rumore come se camminassero su dei tubi di ferro, i marinai vanno dietro l’ultima e spariscono nella pancia della nave. Si sente uno schianto, il pavimento sobbalza, le catene che sollevano la rampa incominciano a scorrere. Ogni anello è grande come una testa, tutta la nave trema mentre si riavvolgono. È un rumore che copre tutti gli altri e Roberto si chiede se lo avrebbe svegliato, ma per qualche ragione si risponde di no. L’acqua intorno alla poppa incomincia a ribollire. 

Tutte le operazioni vengono fatte al buio, a memoria. Si vede un po’ di movimento intorno alle bitte, un guizzare di enormi serpenti liberati e il tonfo delle gomene che cadono in acqua. Si sentono gli ingranaggi di metallo che gemono, le gomene che risalgono sbattendo contro la fiancata e le voci dei marocchini che hanno sempre un sacco di cose da dire su tutto. 

È il suo momento preferito e si gira verso Costanza, ma lei si è già sdraiata ed è coperta dagli schienali. Roberto sale in piedi sulla sbarra più bassa del parapetto e riesce a vedere la testa bionda tra i bagagli. 

La nave si è staccata dalla banchina. 

Da terra le luci fanno risplendere la scia di acqua bianca che ribolle intorno alle eliche. Un paio di gabbiani si staccano da una gru e planano verso la poppa. La nave scivola lentamente fuori dal porto: dal suono si direbbe che i motori abbiano difficoltà a tenere il minimo. La fiancata destra passa così vicino all’imboccatura che per un attimo tutto si tinge di rosso, poi si fa buio sul serio e si dirigono verso il mare aperto. La terraferma è una schiera di luci, una platea immobile affacciata sul palco del mare. 

Costanza non si è addormentata, ma sta sdraiata e guarda il cielo buio. Roberto spinge da parte un po’ di bagagli, si siede e le fa poggiare la testa sulle gambe. Non si dicono niente, lui aspetta che lei prenda sonno. A volte non dorme per tutta la notte, dopo che hanno litigato, ma è stata una giornata piena. 

Costanza ha gli occhi enormi, azzurri, e non li chiude. Si gira un po’ sul fianco e continua a guardare il cielo.  

È pieno di coppie che si sono lasciate dopo un viaggio, pensa Roberto. Se io e Costanza non reggiamo quindici giorni in Marocco, è inutile insistere.  

Si sveglia con il braccio gettato sugli occhi. 

Sopra di lui c’è un cielo chiarissimo, tagliato a metà da un pennacchio di fumo bianco. Non ha dormito neanche la metà di quello di cui avrebbe bisogno. I gabbiani sono ancora qui, gridano come idioti e si sorpassano l’un l’altro. Nel sonno si è tolto la felpa e ha la maglietta bagnata che gli si incolla al petto. Prende l’acqua dallo zaino e beve quasi mezza bottiglia, mentre gli occhi si abituano al sole. 

Sul sedile accanto Costanza sta ancora dormendo. Si è girata verso lo schienale e ha una mano a coppa sugli occhi per proteggersi dalla luce. Dovrebbe bere anche lei, pensa Roberto, ma se la sveglio, con questo caldo, non si riaddormenta più. È la tipica situazione che immaginava quando ha detto che forse il Marocco ad agosto non era la loro meta ideale. Ovviamente questa perplessità gli è costata due o tre ore di conversazione inutile, ma a conti fatti era fondata. 

Costanza non è mai stata un’amante dell’estate. Roberto ha una foto di lei al mare, prima che si conoscessero, dove sembra un’altra persona. Ha la testa fasciata in un turbante enorme, la pelle lucida di sudore e uno sguardo ebete più adatto a un’illuminazione mistica nel deserto che a Marina di Camerota. Lui l’ha incontrata d’inverno, con la sciarpa fin sotto il naso e gli occhi che correvano ovunque, e l’ha desiderata subito. 

C’è davvero troppa luce per le dieci, e infatti quando cerca il sole lo trova molto più in alto di dove dovrebbe essere. O il sole si è alzato molto più energico del solito o è la nave che non tiene il passo. Saranno almeno le undici, e non si vede la terra: con queste premesse oggi sarà anche peggio di ieri, ma è naturale che un vecchio traghetto marocchino faccia qualche ora di ritardo. Lo dice anche la guida: le città imperiali sono suggestive, i cammelli bevono molto e i trasporti fanno ritardo. 

In fondo alla fila di sedili a baulone ci sono due bambine che giocano. Ognuna ha una collezione di sciarpe avvolta intorno alla testa, Roberto si chiede com’è che non volino via col vento. 

La più piccola si è arrampicata sul parapetto, come ha fatto lui la sera prima, ma avrà sei o sette anni e anche con i piedi sulla sbarra non arriva con il mento al corrimano. Il parapetto ha tre sbarre di metallo che corrono orizzontalmente a una trentina di centimetri l’una dall’altra. La bambina è così piccola che potrebbe scivolare tra una sbarra e l’altra e finire in mare. 

Roberto resta a guardarla, ma non sa come fare ad avvicinarsi a due bambine senza spaventare i genitori, e non saprebbe neanche dire chi sono i genitori. Sembra che nessuno ci faccia caso. 

Sua madre direbbe: ma queste bambine ce l’hanno una madre? 

C’è una donna, due panchine più in là. Roberto si alza, attira la sua attenzione e indica le bambine. 

Lei non capisce. 

Roberto prova a dirle che c’est dangereux, cercando a braccio una fine possibile per la parola. 

La donna si fa una risata. Pas problem

Attention a le, vorrebbe insistere Roberto, ma il suo francese lo tradisce. La donna si fa un’altra risata e lui torna al suo posto sconfitto. 

C’è anche un cartello, attaccato al parapetto, è una targa di plastica un po’ vecchia ma bella grande, con una scritta rossa su bianco: “Attenzione, non sporgersi”. 

Sotto c’è quella con le istruzioni per la scialuppa di salvataggio e la legge tutta, prima di accorgersi che la sta leggendo. C’è anche la targa in arabo, molto più nuova, imbullonata accanto a quella italiana, quasi non l’aveva presa per una cosa da leggere. 

Roberto si alza e cammina fino alla scala che scende sul primo ponte, e a ogni passo è come se stesse facendo un giro completo della nave. Si affaccia, riconosce l’arredamento da anticamera di salumeria eppure non ci crede ancora, allora torna indietro e va ad affacciarsi dove stavano giocando le bambine e guarda il nome sulla fiancata. 

È proprio lei. 

Adeona, Napoli. 

Non se la ricorda, la prima volta che ha preso il traghetto per Ischia. È sempre stato lì. Erano in tre a fare quel tratto, Adeona, Naiade e Driade, ma Adeona era il più grande e il suo preferito. 

Faceva la partenza delle nove e dieci. La prendeva quando sua madre lo portava a fare il bagno, quando ci andava con Tommaso e gli altri al liceo, quando ci portava una ragazza. L’estate con Lucia, la prendevano ogni settimana. Nadia non c’è mai voluta andare. L’ha presa anche da solo, un’infinità di volte, per andare a pranzo da suo nonno. 

Ha gli stessi colori, il bianco della fiancata, dei fumaioli, dei corrimano, le rifiniture e tutto il pavimento blu. I marocchini hanno tenuto lo stesso colore, se l’hanno mai ridipinta, ma in fondo è un blu vivo, un blu da tuareg. 

Hanno cambiato le scialuppe di salvataggio, ovviamente, e forse è questo che ha sviato Roberto. Le cime sono gialle, invece che arancioni, e mancano le fontanelle per bere, ma proprio non capisce come ha fatto a non riconoscere i sedili. I sedili a baulone, bianchi con le cerniere d’alluminio, per tutte le volte che ci ha dormito potrebbe chiamarli casa. 

Sale un’altra volta sulla sbarra del parapetto e se la guarda bene, come un capitano al suo primo comando: verso poppa ci sono le scale che scendono verso il primo ponte, gli argani delle scialuppe e quei due funghi di metallo bianco che nessuno gli sapeva dire a che servivano. Verso prua ci sono nove file di sedili che si infilano sotto una grande tettoia di metallo tesa tra i due fumaioli. In fondo lo sguardo è interrotto da una parete, in cui si aprono le porte che scendono verso i bagni, il bar e i saloni passeggeri. Dietro la parete invece c’è la cabina di comando, ma Roberto non l’ha mai vista. È tutto quello che si vede di un traghetto Caremar, la metà verso poppa: oltre la parete ci sono i marinai e non ci si va mai. Quando era bambino sua madre avrebbe potuto chiedere il permesso, ma a lui piaceva guardare il mare e alla nave non ci faceva caso. 

Il motore dev’essere a metà della velocità di crociera, pensa Roberto, neanche nel Golfo di Napoli la facevano andare così lenta. L’effetto è di una nave intimidita da tutto questo mare aperto. Gli fa strano vederla così senza l’isola o i golfi sullo sfondo, come se si fosse persa. 

Vorrebbe svegliare Costanza e raccontarle tutto, ma ovviamente non lo fa. Più precisamente, gli piacerebbe raccontarlo all’altra Costanza, a quella più dolce di tutte le altre, e non a questa incazzata nera che si è addormentata ieri notte. 

Questa di stanotte ci fa il cuscus, con i suoi ricordi, li prende, li fa a pezzi e li cuoce. Scoprire di star viaggiando su Adeona è una di quelle sensazioni che il primo desiderio è condividerla, ma questa Costanza gli ha insegnato a seguire i secondi desideri più dei primi. 

Si guarda il mare, si guarda la nave e poi si guarda di nuovo il mare. 

Si sarà fatto mezzogiorno, e Costanza non si sveglia, ha la testa infilata tra lo zaino e lo schienale, il respiro pesante e il braccio piegato sugli occhi. Non smette di sudare, ha due strisce luccicanti tra il collo e la spalla, ma non si sveglia. 

Roberto ci dormiva come se fosse stato il suo letto, su questi sedili: suo padre conserva una sua foto di lui che dorme su questi sedili, sotto il sole di luglio, con un libro di latino sotto la testa. Ed era una maturità che lo teneva sveglio in qualsiasi altro letto. 

I posti sotto la tettoia erano i migliori. Ventilati ma protetti da sole, con le file di sedili che si fronteggiavano. Quando ci veniva con gli amici i posti sotto la tettoia erano d’obbligo: all’andata si stava tutti insieme a fare casino, mentre al ritorno, stanchi per la giornata di mare, ognuno si trovava il suo posto per dormire. Anche con la madre prendevano quelli, ma perché era lontana dal parapetto, il temibile parapetto con le sbarre troppo distanziate. A lui stava bene, apriva un libro e leggeva. Si leggeva bene, su Adeona, meglio che sulle altre navi, ma più di tutto, si dormiva. Più di una volta, quando viaggiava da solo, Roberto era stato svegliato dalla sirena, e si era ritrovato solo tra i sedili, la nave pronta a ripartire. I marinai non gli dicevano niente, finché stava all’esterno, lo avrebbero lasciato lì a dormire anche tutto il giorno, Napoli e Ischia, avanti e indietro, all’infinito. 

Costanza dice qualcosa nel sonno e si gira verso di lui. Ha la pelle arrossata e gonfia, sembra che il sole la prenda a schiaffi. Roberto tira su lo zaino e lo mette in spalla, poi quello di Costanza, il suo zainetto e la borsa di lei. 

La sveglia scuotendola, più piano che può. 

Le dice che la porta all’ombra e le porge la mano. Lei la prende, si mette a sedere senza capire, gli occhi intontiti della foto. Roberto le sorride, la fa alzare e la porta sotto la tettoia: il sedile di centro che guarda verso il mare. Fa un gran fresco, le porte laterali sono aperte e c’è un filo di vento che va e viene. 

Le passa la bottiglia d’acqua e la fa bere. 

«Siamo arrivati?» 

«Puoi dormire ancora un po.» 

Lei fa per rispondere qualcosa, ma poi si sdraia, appoggia la testa sulle sue gambe e richiude gli occhi. Roberto si sbottona la camicia e aspetta che torni il vento. 

Non le dice che su quel sedile ci si è seduto accanto a sua madre, a tutti i suoi amici, a tre ragazze con cui è stato. Specialmente non le dice delle tre ragazze. 

Costanza non si riaddormenta subito ma resta lì a pensare. Roberto si sporge fino allo zaino, cerca la cosa più pulita che hanno e la usa per asciugarle la fronte dal sudore. Lei ricambia lo sguardo, gli occhi azzurri che sembrano arcobaleni rovesciati. Poi riprende sonno. 

L’autrice

Simone Laudiero è nato a Milano nel 1979 ma è napoletano di famiglia napoletana. Lavora a Milano e vive a Roma. Dal 2006 è autore comico: portano la sua firma Camera CaféKubrick e altri programmi. Ha creato il Professor Schiaragola. Nel 2008 ha pubblicato La difficile disintossicazione di Gianluca Arkanoid per Fazi Editore. Autore di numerosi altri romanzi, il suo ultimo lavoro pubblicato è Il ritorno del mare. Gli eroi perduti (Piemme, 2019). È tra i fondatori di La Buoncostume, un gruppo di autori televisivi e web.  

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