Alla fine degli anni ottanta ed inizio novanta, anche la Fiat cominciò ad essere investita in pieno nelle sue componenti organizzative, tecnologiche, relazionali dai mutamenti derivanti dalla globalizzazione della competizione e fu, di conseguenza, sollecitata a rifondare le sue logiche basate sino a quel momento sui paradigmi della produzione di massa.
In particolare il contesto europeo in cui operava l’industria automobilistica andava caratterizzandosi da una sempre maggiore competitività fra le aziende costruttrici, dal venir meno del contingentamento delle vetture giapponesi e coreane e da un mercato la cui complessità era ormai determinata da una clientela sempre più evoluta ed esigente.
Tutti i grandi costruttori europei si dovettero impegnare nella elaborazione di propri progetti di evoluzione strategica, di cui uno dei postulati fondamentali era rappresentato dal fatto che prodotti tecnologicamente avanzati, competitivi nei costi e posizionati su standard qualitativi eccellenti, presupponevano tecnologie di processo all’avanguardia, applicazione dei più sofisticati sistemi di logistica industriale ed elevata utilizzazione degli impianti.
Peraltro tali obiettivi non potevano prescindere da interventi di innovazione e razionalizzazione degli assetti produttivi; ragione per la quale, le maggiori case costruttrici trovarono conveniente allocare parte della loro capacità produttiva fuori dai confini domestici sulla base di indubbi vantaggi in termini di agevolazioni finanziarie agli investimenti, contenimento del costo del lavoro, maggior utilizzo degli impianti e presenza come costruttori in mercati in progressiva espansione, come in Spagna, Portogallo o nei Paesi ex-comunisti.
Anche la Fiat valutò al tempo, a fronte delle opzioni allocative disponibili, l’opportunità di avviare la produzione del suo nuovo modello, che sarebbe stata la Punto, in un nuovo stabilimento da insediare probabilmente in Portogallo, attese le condizioni competitive che il paese offriva in termini di incentivazioni economiche e finanziarie e di un costo del lavoro inferiore di oltre la metà.
Dopo un serrato dibattito al proprio interno e a livello sindacale, la Fiat ritenne alla fine di poter privilegiare una scelta nazionale, nel presupposto che essa risultasse comunque coerente con gli imprescindibili obiettivi di competitività, con specifico riferimento alla flessibilità della prestazione lavorativa e ad un intensivo utilizzo degli impianti.
Nasceva al Sud la Fiat di Melfi che entrava in produzione con la Punto e la Ypsilon nei primi mesi del 1994, con una capacità installata di 1800 vetture al giorno e con un organico, a regime, di circa 7000 addetti.
Melfi diventava la prima fabbrica automobilistica, perlomeno in Europa, con il pieno utilizzo degli impianti per 24 ore giornaliere per sei giorni la settimana, comprensivi del sabato, con l’attività lavorativa articolata su tre turni strutturali a rotazione con riposi a scorrimento basati su schemi plurisettimanali a livello individuale di due settimane consecutive a 48 ore e la terza a 24, garantendo in questo modo la media dell’orario contrattuale di 40 ore.
La manutenzione degli impianti ad alta automazione era poi organizzata sempre su tre turni strutturali di 8 ore a rotazione ma per sette giorni la settimana, onde permettere anche la manutenzione straordinaria a lavorazioni ferme.
L’aumento della capacità produttiva installata di Melfi (circa 600.000 vetture/anno) comportò peraltro la inevitabile razionalizzazione e riorganizzazione degli impianti obsoleti del Nord: nello spazio di qualche anno si dismisero gli stabilimenti di Chivasso, Arese e Rivalta.
Con la fabbrica di Melfi, sorta da “prato verde”, la Fiat abbandonava il modello americano fordista della “produzione di massa” ( con cui aveva motorizzato il Paese) per passare al modello giapponese della “produzione snella”, caratterizzato dall’obiettivo della assoluta conformità dei prodotti fabbricati ai desideri espressi dal mercato, della qualità totale del processo produttivo considerato nella sua interezza, della estrema flessibilità e tempestività di risposta alle variazioni di mercato ed alle innovazioni tecnologiche.
Fiat declinava il modello di “produzione snella” nella propria visione della “Fabbrica Integrata”, un modello cioè socio-tecnico che chiamava in causa non solo elementi interni (organizzazione, produzione, logistica, ecc.) all’azienda, ma anche elementi esterni ad essa, come i rapporti sociali e sindacali o il sistema fornitori/clienti.
Nel comprensorio di Melfi sorsero ad esempio 18 stabilimenti satelliti per un organico complessivo di circa tremila addetti con il compito di rifornire just in time le linee di lavorazione.
Uno degli elementi determinanti per entrare nella logica del nuovo modello organizzativo fu quello della mobilitazione della propositività degli operai, della abolizione della tradizionale suddivisione tra chi pensa e chi esegue, con il conseguente spreco del sapere operaio che non poteva essere raccolto o stimolato dai precedenti modelli organizzativi.
Un altro importante elemento caratterizzante le logiche della Fabbrica Integrata fu il “processo decisionale”: i precedenti comportamenti legati ad una organizzazione del lavoro taylorista prevedevano di portare i problemi operativi dal basso verso l’alto lungo la gerarchia dell’organizzazione.
Nel nuovo modello la logica è quasi opposta: i problemi devono essere risolti là dove si originano e da chi li ha visti nascere e ha la competenza per risolverli.
L’informalità e la deburocratizzazione gerarchica si manifestano in particolare nelle occasioni cruciali del processo produttivo : l’operaio, quando riscontra una anomalia nella lavorazione non rispondente agli standard qualitativi previsti, è autorizzato ad arrestare la linea ed accendere una spia di allarme su un pannello denominato “Andon” (dal giapponese “lanterna”) che informa gli operatori di gestione e di manutenzione per un immediato intervento.
Ecco quindi che coinvolgimento-motivazione e delega decisionale-operativa furono i punti chiave della Fabbrica Integrata.
La messa in opera dell’inedito modello organizzativo richiese, inizialmente e per un certo periodo, una robusta opera di formazione e di comunicazione, non solo sul “sapere tecnologico” ma soprattutto sull’orientamento al processo lavorativo, sui metodi per la prevenzione più che sull’intervento riparatore, sul lavoro in team e sull’interfunzionalità.
In termini di cultura aziendale, di comportamenti organizzativi, e quindi di formazione e comunicazione interna, il caso di Melfi all’epoca si presentò diverso da quello di tutti gli altri stabilimenti, proprio per la sua diversa genesi. Prima ancora dell’avvio della produzione nel 1994, per circa due anni furono formati a Torino nella allora scuola aziendale (l’ISVORFIAT) un migliaio di “pionieri” ( quadri, tecnologi, impiegati e operai) con il compito di avviare tutti i successivi meccanismi operativi dello stabilimento.
Fu una esperienza unica, uno degli “atout” decisivi per il successo iniziale dell’iniziativa partita in un contesto sociale non condizionato da una cultura industriale consolidata, che avrebbe potuto recare in sé la tentazione a ripetere schemi e comportamenti tradizionalmente conosciuti e, nel passato, vincenti.
Il caso Melfi fu per anni uno dei soggetti preferiti della letteratura di sociologia e di organizzazione aziendale, ma con il passare degli anni e il continuo crescere degli organici, si andarono ad affievolire gli anticorpi che il sistema aveva ricevuto per evitare l’insorgenza delle tradizionali barriere gerarchiche e funzionali.
Il sistema socio-tecnico ideato all’inizio entrò in crisi dopo una decina d’anni proprio a seguito della divaricazione ed incomprensione tra il gruppo affiatato e motivato dei “pionieri” e i giovani entrati successivamente in fabbrica, che, passato l’iniziale entusiasmo per il posto di lavoro, non riscontravano nella attività lavorativa quotidiana la narrazione portata avanti dagli stessi pionieri.
Si arrivò così nell’aprile del 2004 al blocco totale di 21 giorni dello stabilimento, il più lungo nella storia della Fiat dopo i 35 giorni di Mirafiori, e passato alla storia sindacale come “la Primavera di Melfi”.
Di fatto si esauriva la spinta del modello della Fabbrica Integrata, ma si erano comunque poste le basi per lo sviluppo, dopo qualche anno, del World Class Manufacturing.