Cosa ha deciso in realtà la Corte costituzionale sul blocco dei contratti del pubblico impiego? In attesa del dispositivo della sentenza, lo scarno comunicato dei giudici costituzionali lascia campo libero alle più svariate interpretazioni. Ed in effetti i media si sono lanciati in assurdi calcoli sul costo per il Tesoro dell’obbligo di riprendere la contrattazione; i dipendenti pubblici sono scontenti perché si aspettavano un “recupero”; i cittadini sono preoccupati perché non sanno se dovranno pagare più tasse per far fronte ai nuovi oneri statali.
Ancora una volta in Italia il caos legislativo, la vaghezza di certe formulazioni costituzionali, un dibattito pubblico urlato ed ansiogeno, producono una sorte di smarrimento tra i cavilli giuridici che spesso fa strage di leggi economiche e finanche di un sano buonsenso.
A rigore, la Corte ha solo detto che il blocco della contrattazione non può essere eterno e che quindi dopo cinque anni è arrivato il momento di riprendere a negoziare. Perché cinque anni e non dieci? Mistero. E cosa significa negoziare? E con chi? Questo la Corte non lo dice. Quindi tanto per cominciare tutte le cifre che girano sul costo che il nuovo negoziato porterà per le casse dello Stato sono prive di fondamento.
Infatti ammesso e non concesso che sia obbligatorio contrattare, non è affatto detto che questo comporti un onere per il datore di lavoro. Infatti se lo Stato fosse un datore di lavoro capace negozierebbe aumenti contrattuali strettamente legati al raggiungimento di obiettivi di produttività e cioè legati ad una profonda riorganizzazione degli uffici, alla disponibilità alla mobilità tra amministrazioni diverse, all’impegno per un aggiornamento professionale degli addetti.
In questo caso, ad esempio, si potrebbe prolungare una riduzione del numero degli addetti non rimpiazzando i normali pensionamenti e quindi si avrebbero per questa via forti risparmi da redistribuire secondo criteri selettivi a quelli che rimangono i servizio.
Quindi non è affatto detto che per affrontare un rinnovo contrattuale lo Stato debba per forza stanziare una qualche cifra nel suo bilancio. Anzi, vista la situazione di crisi, dovrebbe dichiarare fin dall’inizio che, come accade in molte imprese private a rischio fallimento, il proprio obbiettivo è quello di rendere l’apparato burocratico più efficiente e di risparmiare sui costi.
Si dice che i dipendenti pubblici siano stati penalizzati dal blocco della contrattazione. Certo, ma rispetto a cosa e a chi? Nel settore privato la penalizzazione è stata forte sia per i dipendenti che per i lavoratori autonomi. E poi i dipendenti pubblici partivano da retribuzioni molto più elevate rispetto a quelle del settore privato che il blocco non ha ancora del tutto compensato, specie per quel che riguarda i dirigenti. Più in generale ci si può chiedere se in questo modo la Corte non abbia inventato un obbligo a contrattare che non esiste in una libera società di mercato.
In realtà dal punto di vista politico i vari governi dal 2010 ad oggi avevano trovato conveniente la formula del blocco della contrattazione infilata nel corpaccione della Legge finanziaria per non dover contrattare direttamente con i sindacati la riduzione del personale o il taglio delle retribuzioni. Ora la Corte mette il Governo Renzi di fronte al difficile compito di sfidare apertamente i sindacati, di affrontare scioperi e la perdita di consenso tra gli oltre 3 milioni di dipendenti pubblici abituati alla tranquilla routine del posto sicuro senza responsabilità. Sempre che non si preferisca tornare alla finanza allegra degli anni passati.
Inventandosi formule stravaganti come “l’incostituzionalità sopravvenuta“, o volendo dare contenuto concreto alla formulazione costituzionale di una retribuzione equa e dignitosa, si finisce in sentieri tortuosi che invece di arrivare assicurare la giustizia rischiano di consolidare i privilegi e di frammentare ancora di più la società italiana, aumentando la sfiducia verso le istituzioni che già peraltro è su livelli di guardia.