Approvati i due principali decreti del Jobs Act e con la riforma costituzionale che marcia a ritmo serrato, il cambiamento sembra essere in atto. Un cambiamento riconosciuto anche dall’Europa che ha dato il via libera alla Legge di Stabilità 2015, accordando all’Italia maggiore flessibilità proprio in virtù dell’azione riformatrice messa in campo dal governo.
Altre riforme, però, sebbene annunciate, non sono ancora state attuate. Tra queste, c’è quella della Pubblica Amministrazione. Nell’estate scorsa, il testo avrebbe dovuto essere vagliato da Palazzo Madama ma poi, per diversi motivi, si è arenato. E così si è perso un anno prezioso per una riforma che dovrebbe essere considerata non “una” delle riforme ma “la riforma” di tutte le riforme. Perché, è evidente che senza una pubblica amministrazione efficiente è difficile che le altre riforme possano dispiegare pienamente i loro effetti.
Dal punto di vista della complessità della burocrazia, l’Italia, è cosa nota, non si posiziona bene nel confronto internazionale: nella classifica Doing Business, stilata annualmente dalla Banca Mondiale, è al 56esimo posto su 189 paesi. La posizione italiana peggiora decisamente se misurata in termini di difficoltà ad ottenere permessi dalla pubblica amministrazione (116esima posizione), di tempo necessario per riempire i moduli per pagare le tasse (141esima posizione) o di capacità a far rispettare un contratto (147esima posizione). Simili statistiche non incoraggiano di certo chi deve decidere se investire o meno nel paese: un cambiamento radicale è quindi necessario.
Il testo (ancora provvisorio) della riforma della pubblica amministrazione tocca diversi aspetti, ma fino ad ora, l’attenzione si è concentrata soprattutto sulla dirigenza pubblica. L’obiettivo è di accrescere l’efficienza dei dirigenti riducendo il peso dei criteri di anzianità in favore di quelli di merito. Come? Semplice, attraverso la costituzione di una Commissione super partes, formata da tecnici, che avrà il compito di valutare quali sono i dirigenti più adatti ad un determinato incarico. Il suddetto incarico avrà una durata triennale e potrà essere rinnovato solo una volta. Dopodiché, la Commissione deciderà se assegnare un nuovo incarico che potrà anche prevedere responsabilità inferiori a quelle precedenti e/o un trasferimento in un’altra sede.
Cosa succede se la Commissione non valuta positivamente l’operato del dirigente e decide di non assegnargli un ulteriore incarico? Secondo quanto dichiarato al quotidiano La Repubblica dal Ministro Madia, il dirigente potrebbe “perdere l’abilitazione fino a perdere il lavoro”. In sostanza, dopo un “congruo periodo” senza un incarico, potrà essere licenziato. Ora, considerata la drammaticità di questo evento, bisognerebbe avere la certezza che la mancanza di un incarico sia da addebitare unicamente all’incapacità del dirigente. Chi conosce la pubblica amministrazione sa che, in certi casi (non rari) i dipendenti pubblici non lavorano quanto e come vorrebbero, non per incapacità propria, ma per incapacità di chi dovrebbe assegnare loro compiti precisi. In molti uffici della pubblica amministrazione sarebbe, infatti, necessario effettuare una seria riorganizzazione delle risorse umane. La riforma sembra voler appaltare questo compito alla Commissione. Difficile, però, immaginare che dei tecnici estranei agli uffici e alle direzioni, ad esempio, di un ministero, possano valutare meglio di chi – come un dirigente generale (che spesso viene scelto all’esterno e quindi non è soggetto all’esame della Commissione) -, quell’ufficio o quella direzione, appunto, li dirige.
La Commissione, inoltre, dovrà giudicare i dirigenti sulla base della loro stessa capacità di valutare i propri collaboratori. Tuttavia, dal momento che il Jobs Act sembrerebbe non applicarsi al settore pubblico, i dirigenti potranno si valutare i propri collaboratori ma non licenziarli perché, – e questa è la logica sottostante alla non estensione delle nuove norme sul lavoro ai dipendenti pubblici -, nel caso di errore, l’indennità verrebbe pagata con i soldi dei contribuenti e non con risorse proprie come farebbe un imprenditore privato. Questa motivazione, però, non convince fino in fondo. Innanzitutto perché, non è da escludere che i cittadini non siano disposti a finanziare (attraverso le loro tasse) qualche errore di valutazione, in cambio, di dirigenti più responsabili. E poi, se la riforma mira a mettere al centro il merito, perché non considerare la capacità di licenziare parte integrante della performance di un dipendente pubblico? In base all’impianto attuale, la Commissione rischierebbe, infatti, di assegnare gli incarichi prescindendo dal grado di responsabilizzazione e di coinvolgimento del dirigente, aspetti non marginali del suo valore professionale.
Poniamo, però, per ipotesi, che la Commissione riesca comunque ad assegnare gli incarichi ai dirigenti più meritevoli e faccia perdere l’abilitazione a quelli incompetenti. Il risultato ultimo sarebbe una pubblica amministrazione composta da dirigenti capaci e efficienti. Un risultato lodevole, certamente, ma non sufficiente: dirigenti efficienti non garantiscono necessariamente un funzionamento efficiente della macchina. Se le regole rimangono le stesse, di fatto, poco cambia. Ad esempio, se per prendere una decisione è necessario sentire il parere di più amministrazioni, nonostante esse siano – sempre per ipotesi – le migliori del mondo, l’iter resta sempre complesso, lungo e suscettibile di veri e propri blocchi al passaggio da un’amministrazione all’altra.
In conclusione, riformare la dirigenza pubblica è sicuramente un passo necessario ma senza una vera e propria semplificazione delle procedure, che comporti una significativa riduzione dei poteri, fino ad oggi ben distribuiti (e ben difesi) tra le diverse pubbliche amministrazioni, è difficile ammodernare il settore pubblico. Tra l’altro, bisogna fare anche presto perché, nella classifica Doing Business, in un solo anno, l’Italia ha perso ben 4 posizioni, passando dalla 52esima alla 56esima.