Il 2019 sarà per l’Italia un anno di stagnazione, con la crescita del Pil che non andrà oltre il +0,1%. Nel 2020, invece, ci dovremo accontentare di un flebile +0,2%. Quest’anno, anche se non ci sarà bisogno di una manovra correttiva dei conti, le misure bandiera del governo gialloverde varate con il decretone – reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni – avranno un effetto espansivo assai modesto: appena 0,2 punti percentuali. Queste, in sintesi, le principali stime pubblicate da Prometeia nel suo ultimo rapporto di previsione. Il centro studi contraddice dunque il governo, che insiste nel prevedere per quest’anno una crescita di almeno l’1%. Più pessimista il Centro Studi di Confindustria che lancia un nuovo allarme recessione e azzera la stima di crescita del Pil per il 2019.
Sul versante fiscale, “le misure per il 2020 avranno un impatto espansivo sul Pil per 0,3 punti percentuali – si legge ancora nel rapporto – Ma le coperture attualmente previste non sono sufficienti”. L’anno prossimo, poi, sarà “inevitabile un aumento dell’Iva, pur inferiore a quanto previsto adesso”: per il centro studi arriverà un incremento di 2 punti delle aliquote più basse, per un maggior gettito di 6 miliardi di euro.
Come invertire questa tendenza? Secondo Prometeia, “dato il vincolo posto dall’elevato debito pubblico, un rilancio della crescita potenziale non potrà che passare per un riequilibrio verso maggiori investimenti, anche pubblici, che potrebbero essere finanziati dall’elevato risparmio. Gli investimenti, favorendo l’aumento della produttività, possono rendere l’economia italiana più competitiva e favorire le esportazioni, non solo di beni ma anche di servizi (turismo, trasporti, etc.). Prometeia stima che nel 2022-2026 il peso sul Pil degli investimenti pubblici italiani smetterà di cadere. In assenza di shock negativi, l’Italia riuscirà a recuperare i livelli di Pil pre-crisi però solo nel 2025, senza che la maggior disoccupazione venga riassorbita (9,4% il tasso nel 2026, era al 6,1% nel 2007) e con un debito pubblico che sarà ancora al 127,3% del Pil (era il 99,8% nel 2007)”.
Per quanto riguarda il commercio internazionale, il centro studi sottolinea che “le tensioni commerciali tra Cina e Usa sono ancora il principale rischio per la crescita dell’economia mondiale (+3,2% nel 2019, +2,9% nel 2020), che rimane carica di incertezze. Non è comunque prevista una recessione globale, complici politiche monetarie più accomodanti”.
Eppure, “il rallentamento dell’economia americana – continua il rapporto – è destinato ad acuirsi (+2,2% nel 2019, +1,3% nel 2020)”, mentre “in Cina (+6% nel 2019, +5,3% nel 2020) prosegue il sostegno fiscale alla crescita, e con esso il rischio per la sostenibilità del debito”.
La frenata prospettata per l’economia mondiale e americana si farà sentire anche sull’Eurozona, “che manterrà una crescita inferiore al potenziale: +1,1% nel 2019 e +1,3% nel 2020. In sofferenza soprattutto il settore auto, in particolare in Germania”.
CONFINDUSTRIA LANCIA L’ALLARME RECESSIONE
Ancora più pessimista il centro studi di Confindustria, che per quest’anno prevede una crescita pari a zero, seguita da un +0,4% nel 2020. Lo scorso ottobre il CsC prevedeva una crescita dello 0,9% per il 2019: la revisione è dovuta per tre quarti alla minore domanda interna, per un quarto a quella estera.
Confindustria dunque azzera le previsioni per il Pil 2019 (già ribassate a ottobre al +0,9%). E indica nei principali fattori della nuova revisione “una manovra di bilancio poco orientata alla crescita”, “l’aumento del premio di rischio che gli investitori chiedono” sui titoli pubblici italiani, “il progressivo crollo della fiducia delle imprese” rilevato “da marzo, dalle elezioni in poi”.Gli investimenti privati sono per la prima volta in calo (-2,5%, escluse costruzioni) dopo 4 anni di risalita.
Anche per gli industriali, con il Def ormai alle porte, la sfida si sposta sempre più sul prossimo anno. “Il Governo ha ipotecato i conti pubblici e non ci sono scelte indolori”, dice Confindustria, sottolineando il bivio in cui si trova il Paese tra “rincaro Iva” o “far salire il deficit pubblico al 3,5%”. Per annullare il primo e fare la correzione richiesta sui conti “servirebbero 32 miliardi di euro senza risorse per la crescita”. Così appare “inevitabile un aumento delle tasse”. “L’Italia – sottolinea il capoeconomista di Confindustria Andrea Montanino – deve evitare di andare oltre il 3% nel rapporto deficit-Pil: sarebbe un segnale molto negativo per i mercati. Il fatto che lo spread non si è richiuso significa che continuiamo ad essere un paese sotto osservazione. Verremmo puniti dai mercati”.
(Aggiornato alle 13:21 di mercoledì 27 marzo)