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Prometeia – I costi della normalizzazione dei mercati finanziari

In un contesto di politiche monetarie con forte orientamento espansivo (per favorire la ripresa economica) e politiche fiscali restrittive (per rispettare i vincoli comunitari di deficit e debiti pubblici), la normalizzazione dei mercati richiede una modifica nella fiducia degli investitori e una modifica nella possibilità e propensione degli intermediari ad assumere rischi (in particolare nella trasformazione delle scadenze) e degli investitori istituzionali ad allungare l’orizzonte di investimento.

La crisi ha infatti portato – inevitabilmente – ad una serie di interventi restrittivi sul comportamento di intermediari e investitori istituzionali che ha costretto loro a ridurre il rischio di credito ed il rischio di liquidità.

Si tratta di interventi tempestivi e corretti per garantire la stabilità degli intermediari e creare le premesse per la ricostruzione della “fiducia”.

Tali interventi non potevano però non avere un effetto di prociclico sulla crisi in atto.

Il più noto ed evidente é il (più che) raddoppio del capitale primario necessario per offrire un certo livello di finanziamenti all’economia (piccole medie imprese in particolare).

Il Rapporto di Prometeia dedica a questo tema un serie di approfondimenti.

Fatto 100 il credito concesso alle piccole medie imprese (o meglio il loro Risk weighted asset) era necessario avere 4 di capitale di base.

Ovviamente, come ben evidenzia il Rapporto, nel contesto attuale di assenza di fiducia e carenza di capitale si sta realizzando un mix di questi due effetti.

Il secondo, meno evidente ma altrettanto rilevante intervento, é quello sui mismatch di liquidità.

Anche in questo caso il Rapporto di Prometeia evidenzia gli aspetti critici.

In una situazione di inaridimento dei mercati di finanziamento a medio termine all’ingrosso, alle banche é stato imposto (di nuovo correttamente per salvaguardarne la stabilità) di abbattere i mismatch tra durata della raccolta e degli impieghi.

Ne è seguito che in rari casi le banche sono riuscite ad aumentare la raccolta a lungo termine mentre nella larga maggioranza hanno dovuto ridurre l’erogazione dei crediti a medio-lungo termine riorientandosi verso quelli a breve termine.

Un terzo fattore interessa gli investitori istituzionali. L’imposizione dei cosiddetti “budget di rischio” (ammontare di rischio tollerabile nei prodotti gestiti per conto della clientela) ha una logica corretta e prudenziale: impedisce che i gestori possano operare assumendo rischi non coerenti con il mandato ricevuti dai sottoscrittori.

I budget di rischio sono però misurati utilizzando la volatilità dei mercati (o una sua trasformazione più o meno complicata). Ne segue che un aumento della volatilità, anche se in assenza di alcuna attività del gestore, porta al superamento del budget di rischio e quindi all’obbligo di vendere azioni o obbligazioni a medio lungo termine per comprare attività a breve termine.

In pratica si rovescia il comportamento degli investitori istituzionali che anziché “comperare quando i mercati scendono” sono costretti a “vendere quando i mercati scendono”.

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Il quarto fattore é la  reinterpretazione dei vincoli Mifid da parte degli intermediari in un contesto di crisi. La valutazione dei profili di rischio Mifid é purtroppo sempre basata sul net present value del risparmiatore indipendentemente dall’orizzonte di investimento (in sintesi il BTP che garantisce una cedola fissa é sempre più rischioso di un BOT anche se l’obiettivo del risparmiatore é quello di avere cedole costanti).

Nel contesto di crisi, con un ovvio aumento della litigiosità, gli intermediari hanno una naturale propensione a minimizzare i rischi di contenzioso con la clientela favorendo la vendita di titoli o attività a breve termine prive di rischio.

Un quinto ed ultimo fattore (diretta conseguenza dei precedenti) é il temporaneo disequilibrio di pesi tra organi di gestione ed organi interni di controllo nella governance degli intermediari finanziari.

Dopo anni di assoluto predominio degli organi di gestione e di meri adempimenti formali da parte di quelli interni di controllo, si é passati ad una fase di inerzia dei primi e di forte proattività dei secondi

Se la proattività degli organi interni di controllo é sicuramente un fattore positivo per uno sviluppo sostenibile delle attività in un contesto di rischio sotto controllo, la inerzia dei primi é una fase da superare.

Gli intermediari hanno bisogno, nello stesso tempo, di organi di gestione attivi e pronti a valutare il rischio delle nuove iniziative ed organi interni di controllo altrettanto proattivi e vigili sul rispetto dei livelli di rischio concordati.

Una latitanza dei primi allontana la normalizzazione dei mercati finanziari e creditizi che necessitano di intermediari attivi nell’assunzione e gestione dei relativi rischi.

L’insieme di questi fattori ha portato gli intermediari finanziari e gli investitori istituzionali a ridurre l’erogazione del credito (soprattutto a medio lungo termine) ed a ridurre gli investimenti in azioni o altre forme di capitale di rischio.
Questo fenomeno si é affiancato alla fase di scarsa fiducia dei risparmiatori ed ha reso molto difficile alle aziende l’accesso a finanziamenti di medio termine o al mercato dei capitali.

L’unica politica fortemente anti ciclica é stata quella delle banche centrali che hanno garantito agli intermediari e alle autorità un flusso di liquidità a breve termine abbondante e continuo.

Il problema però é la : qualora gli intermediari non favoriscano la trasformazione delle scadenze e gli investitori istituzionali non diversificano sul capitale di rischio, una liquidità abbondante raggiunge l’obiettivo minimo di garantire il circolante alle imprese e proteggere gli intermediari da default da liquidità ma non l’obiettivo finale di finanziare gli investimenti e favorire la raccolta di capitale di rischio.

Quali possono essere quindi i passi per accelerare il ritorno alla normalizzazione dei mercati finanziari e creditizi?

Un primo fattore è il tempo, grazie alla progressiva andata a regime delle nuove regole e dei nuovi comportamenti.

Si partirà da nuove basi con comportamenti fisiologici sui mercati quando le banche avranno raggiunto il livello richiesto per i nuovi ratio patrimoniali e l’equilibrio sui vincoli più stringenti di trasformazione di scadenze, quando gli investitori finali avranno raggiunto il nuovo equilibrio di “budget di rischio” su livelli strutturalmente più elevati di volatilità, quando gli intermediari “accompagneranno” i risparmiatori sulla parte intermedia dei loro profili di rischio riducendo la quota di portafoglio investita in liquidità o attività a brevissimo termine.

Un secondo fattore é legato agli equilibri di governance negli intermediari finanziari: il disequilibrio tra “passività” degli organi di gestione ed “attivismo” degli organismi interni di controllo non può essere sostenibile nel medio termine.

Il trend alla riduzione del rischio, in un’azienda privata, non può che lasciare il campo ad una fase più equilibrata di governo che miri all’assunzione di un rischio consapevole ma di entità sufficiente per remunerare il capitale.

Se tale equilibrio, necessario per remunerare il capitale, non potesse essere raggiunto, si finirebbe con il mettere in discussione la natura privata degli intermediari finanziari.

Il terzo fattore non può che essere il ritorno della fiducia dei risparmiatori. Si tratta di un fattore influenzato sia da eventi macro (quali la crescita del loro reddito disponibile) sia da effetti indotti dagli intermediari finanziari quelli descritti precedentemente), sia, infine, di nuovo, dal fattore tempo (assuefazione ad agire in un contesto a rischio più elevato).

La normalizzazione dei mercato del credito e dei mercati dei valori mobiliari potrebbe poi essere favorita da interventi regolatori sugli investitori istituzionali e sui risparmiatori.

Per gli investitori istituzionali andrebbero studiate regole anti cicliche opposte a quelle in vigore e prima descritte (limiti di rischio basati sulla volatilità del mercato): le nuove regole dovrebbero favorire gli acquisti quando sui mercati aumenta la volatilità (ed il trend ribassista) e dovrebbero invece spingere gli investitori istituzionali a vendere quando diminuisce la volatilità (e si assiste ad un trend rialzista).

Il ruolo di tali investitori finali con ottica di lungo termine dovrebbe essere infatti proprio quello di stabilizzatore anti ciclico del mercato.

Per i risparmiatori sarebbe necessario separare i risparmiatori che hanno obiettivo di minimizzare il rischio di oscillazione del valore attuale dei titoli (investitori da BOT, cioè sensibili al rischio di prezzo e insensibili al rischio di instabilità del rendimento dei loro risparmi) dagli investitori da rendita che hanno invece l’obiettivo di minimizzare il rischio di oscillazione degli interessi (investitori da BTP a lungo termine, cioè sensibili al rischio di non incassare cedole di un dato livello e del tutto insensibili al valore di mercato del titolo).

A normativa attuale, i risparmiatori “da rendita” che si ritengono “assolutamente avversi al rischio” non riescono ad investire in attività a lungo termine perché tali titoli (causa la duration) sono classificati dagli intermediari come attività ad elevato rischio.

Viene quindi ad essere ostacolato l’investimento a lungo termine con danno, ovviamente, non solo per i risparmiatori “da rendita” ma anche e soprattutto per gli emittenti (in primo luogo imprese) che avrebbero bisogno di finanziamenti a lungo termine.

L’Europa e, soprattutto, l’Italia hanno bisogno di una normalizzazione che consenta di tornare ad una situazione fisiologica dei mercati del credito e dei valori mobiliari. Il “fattore tempo” sta lavorando ormai nella giusta direzione. Se, poi, si riuscisse anche a lavorare sugli altri fattori descritti “a costo zero” (sia comportamentali che normativi) forse risparmiatori ed imprese potrebbero trarne benefici significativi in tempi ragionevoli.

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