Le notizie che giungono sul nostro tavolo quando leggiamo i giornali sono disarmanti. Lo stesso sarà per chi è ormai immerso nel mondo del web e tutto legge e tutto collega attraverso i cristalli liquidi di un mondo a frattali come quello della rete. Rimane la sostanza: il mondo è divenuto piatto. La storia è veramente finita come memoria dell’esserci nel mondo. Un esempio per tutti? Uno drammatico. Quello che è successo e succede nel caso delle negoziazioni per l’ accordo tra parti sociali sul tema della produttività. Tema che dal punto di vista delle relazioni interne aziendali si affronta decidendo o meno di investire sulla base della previsione di poter ampliare o no il grado di solvibilità della domanda.
Ma la produttività comporta anche l’ uso della forza di lavoro e quindi in un modo civilizzato – che impegna l’ impresa nel e con il pluralismo – richiede un accordo tra le rappresentanze dei datori e dei prestatori d’ opera. Diviene problema delle relazioni sindacali per eccellenze perché la produttività, oltre al principio cardinale degli investimenti, richiama quelli non meno essenziali e inderogabili degli orari di lavoro e del prolungamento e della flessibilità del tempo di lavoro e della prestazione lavorativa. Ebbene: essenza di tutto ciò è spostare il livello della negoziazione sindacale dal livello nazionale o settoriale di contrattazione al livello aziendale dove le forze si misurano e si compongono in quel nesso di relazioni di potere e di strategie che si chiama contrattazione articolata o locale. Naturalmente i governi, che sono il terzo punto di qualsivoglia trattativa negoziale che aspiri a divenire processo di cambiamento nei meccanismi di accumulazione, il governo può svolgere un ruolo di moral suasion o addirittura essere centrale se accompagna questi processi con l’ uso della leva fiscale, degli incentivi monetari, ecc.
Gli strumenti sono molteplici. In Italia questo elemento della produttività è essenziale per il fatto che essa deve crescere non solo come total factory produttività, ossia del sistema–paese, ma altresì nell’immenso e articolatissimo mondo delle piccolissime e piccole imprese e non solo delle medie e grandi. Il tema della negoziazione articolata aiuterebbe altresì il radicamento delle forze sindacali anche nel mondo delle piccole imprese perché con lo schema di negoziazione recentemente proposto dalle parti dialoganti, soprattutto su iniziativa dei sindacati federali della CISL e altresì dalla sua segreteria nazionale, oltre che dal governo, questo processo di articolazione negoziale aiuterebbe il riconoscimento dei sindacati da parte imprenditoriale anche nelle piccole imprese. Stupisce quindi che la CGIL abbia decisamente rifiutato di firmare l’ accordo dopo le incertezze superate della UIL e le prime e decisive firme della CISL e della UGL, che si rivela sempre più un sindacato vero, autonomo e ricco di capacità negoziale.
La dottoressa Camusso è giovane ma non troppo per non conoscere la storia del sindacate e in primis della CGIL, un sindacato glorioso che proprio negli anni sessanta partendo da Milano, con la guida di sindacalisti insuperabili come Aldo Bonacini e Lucio De Carlini unitamente alla FIM CISL allora guidata da Pierre Carniti, si mise alla testa di un duro confronto interno al sindacato per spostare la contrattazione dal livello solo nazionale e interconfederale e federale al livello articolato ossia aziendale. Ma non furono le discussioni interne al sindacato a dare il colpo decisivo per favorire il cambiamento, quanto invece i lavoratori metalmeccanici milanesi con gli scioperi del 1962 che si svilupparono non solo spontaneamente, ma anche grazie a quel lavoro di revisione ideologica e contrattuale di cui si era precocemente posta a capo la CISL e che aveva altresì investito profondamente la CGIL milanese.
Ma anche a Torino, roccaforte dell’intransigenza per via della dura e sfacciatamente discriminatoria cultura sindacale della direzione FIAT, anche, o persino a Torino, i nuovi dirigenti sindacali CGIL e FIOM, Garavini e Pugno in testa, maestri insuperati della mia primissima giovinezza, si misero alla testa del rinnovamento contrattuale. Mio padre, quadro sindacale tipografico-fotoincisore, anch’ Egli era fautore, da sindacalista di categoria della CGIL (duro fu il libero confronto nostro quando scoprì che io ero divenuto, nonostante quei maestri, cislino!) anche mio padre, nella Sua categoria, era alla testa di questo rinnovamento e pagò nei confronti del padronato un duro prezzo: fu disoccupato due anni per rappresaglia sindacale, a riprova di quanto poco gradivano i padroni di quel tempo (oggi quante cose son mutate…) quella riforma contrattuale che li obbligava a contrattare ogni aspetto del lavoro e della prestazione, perché questa è l’altra faccia della contrattazione articolata, oltre al possibile aumento della produttività del lavoro: l’ampliamento del potenziale ruolo di negoziazione contrattuale soprattutto nelle piccole imprese, dove spesso il contratto nazionale non regola alcunché.
Recentemente, da par suo, Gianfranco Borghini ha raccontato su FIRSTonline la questione dell’autocritica di Di Vittorio dopo la sconfitta alla FIAT della FIOM negli anni cinquanta. Andava nella stessa direzione degli scioperi dei metalmeccanici milanesi del 1962. Per questo addolora ma, ahimè, più non stupisce, che la CGIL si trasformi sempre più non solo in una aggregato di forze anarco-sindacaliste fortemente politicizzate e che perda sempre più il suo bagaglio di sapienza contrattuale, ma che neppure conosca più la sua storia. Essa è stata tanto più gloriosa quando ha saputo rinnovarsi. Addolora che la dottoressa Camusso, la quale possiede un formazione umanistica rara a trovarsi nel mondo d’oggi, non la conosca o non voglia ricordarla. E oggi di di memoria e di storia vi è bisogno più che mai per far riacquistare al lavoro dignità e rispetto.