La recente pubblicazione di Edmondo Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana (Laterza), mi fa riflettere.
La lettura è scorrevole, non è affatto noiosa come avrebbe potuto esserlo per la materia. Fa emergere il compiacimento per l’attivismo progressista nel rimediare alle istanze conservative dei magistrati, in un’atmosfera di ottimismo che trovo del tutto ingiustificato. Condivido i valori dell’Autore, ma li vedo traditi nella corruzione tutt’ora endemica: se non ce ne accorgessimo, ce lo segnalano classifiche internazionali.
Per altro verso nella mia professione di avvocato e accademico, civile commerciale e tributario, riscontro l’esperienza del processo giurisdizionale lontano dall’idea di come dovrebbe essere; di come a ragione lo pretendiamo. Mi trovo nelle nebbie di interminabili processi, dove il dominio delle carte fa perdere la realtà degli accadimenti, non raramente deviati e fraintesi da espedienti processuali (perizie, proroghe inutili, variare della persona chiamata a giudicare). Se da accademico suggerisco agli studenti di ricercare nella giurisprudenza della Cassazione la più valida lettura del diritto, da assumere prima di discutere le spiegazioni della dottrina, purtroppo ti riprende la sfiducia quando ti accorgi che la sentenza, di solito ben argomentata, porta una data che rispetto alla citazione del primo grado dista oltre il decennio.
Il titolo del libro di Bruti Liberati, che richiama la Magistratura in generale, non deve ingannare. È concentrato sull’attivismo della giurisdizione penale; riferisce di vicende dell’Associazione magistrati e del Consiglio superiore della magistratura, sostanzialmente focalizzate sul penale; non si occupa della Magistratura civile e amministrativa.
Mentre il perno dei problemi, della magistratura come servizio, è il processo civile per responsabilità contrattuali e da illecito. Non soltanto i rimedi civili sono debolmente regolati sul piano del diritto sostanziale: le recenti riforme, come accennato anche da Bruti Liberati, hanno ulteriormente indebolito le responsabilità degli amministratori, dei revisori dei conti, degli intermediari; nello slogan della deregolamentazione hanno creato ostacoli all’impugnazione delle deliberazioni delle assemblee, sino ad impedire di farne valere le nullità in seguito all’eseguita pubblicità. Ma è poi sul piano processuale che l’azione giurisdizionale è stemperata al punto da riuscire inutile: l’interminabile processo scoraggia ogni intrapresa che non odori di ricatto.
Di riflesso esplodono le regolamentazioni amministrative, i provvedimenti cautelari che hanno più sapore di atti amministrativi che di decisioni giudiziarie: strumenti impropri. La difesa della legalità del mercato, del mercato finanziario, va affidata innanzitutto agli stessi interessati lesi con azioni sul piano civile: il rischio di risarcire i danni può essere più deterrente del penale, che poi spesso si disperde. L’efficace procedere delle difese civili aiuta le vigilanze amministrative; prepara l’intervento penale al caso estremo, sottraendolo al casuale. Lo vede chi segue le vicende processuali generate in altri Paesi dalla recente crisi finanziaria.
Voglio raccontare due casi emblematici tra i tanti. A Padova a fronte della cessione di un immobile viene costituita una rendita vitalizia, che il cedente impugna con argomenti respinti perché sbagliati; ma subito dopo la causa è correttamente impostata, sicché ottiene ragione dal Tribunale, confermata in appello a Venezia con sentenza cassata per insufficienza di motivazione con rinvio a Brescia, che conferma ampiamente motivando; tornata in Cassazione va alle ss.uu. per ragioni di rito, alla fine superate. Ma sono trascorsi oltre venti anni (dal 1992 al 2014) per un valore di lire 135 milioni (ne ho parlato in Rass. avv. Stato 2017).
Altro caso: il Tribunale di Milano riconosce la responsabilità dei sindaci per non avere impedito che la società esercitasse un ramo assicurativo per il quale non era autorizzata. La questione e facile, la sentenza è confermata in appello e poi dalla Cassazione, con motivazione così secca da giustificare l’impressione di trovarsi dinanzi a lite temeraria: l’ammontare del danno non giustificava le impugnazioni; ma lo giustificava il rinvio del riconoscimento definitivo della responsabilità: erano trascorsi dieci anni durante i quali il commercialista non ha trovato ostacolo all’esercizio della professione.
La crisi del processo civile è pervasiva. Vediamo la logica che ne dovrebbe sostenere l’idea. Il processo dovrebbe essere sostanzialmente definito nel primo grado; l’appello dovrebbe essere revisione; la cassazione riservata per i casi estremi: violazione di legge, per dare unità all’interpretazione del diritto; vizi di procedura.
La controversia di primo grado va concentrata secondo il rito di ispirazione orale: numerose cause non rivelano difficoltà nell’accertamento del fatto. Secondo il codice etico l’assistenza dell’avvocato alle parti comprende il tentativo di risolvere la controversia senza il ricorso giurisdizionale. Sarebbe opportuno che gli avvocati in sede di citazione e di comparsa di risposta diano conto del loro tentativo di comporre la lite, indicando i capitoli di fatto e di diritto sui quali hanno raggiunto l’accordo e di quelli sui quali è richiesta la decisione giudiziaria. È evidente che l’udienza può consumare più ore di approfondimento. Mi diceva un avvocato inglese “devo essere preparato, perché quello che non dico nella discussione orale non conta anche se poi traduco le risposte in scritto”. È evidente che così il giudice ha lo stimolo per impadronirsi della causa, per verificare nel dialogo le ragioni di ciascuno. Il compito del giudice è rafforzato se assistito da ausiliari, da coloro che avranno modo di prepararsi prima di assumere le funzioni: il giudice ha probabilmente un compito altrettanto complesso del chirurgo, che richiede vero tirocinio prima di averne la responsabilità. La concentrazione della causa fa risparmiare le numerose ore perdute nei rinvii e nelle riassunzioni; anche evita che la causa maturi nel corso dei rinvii, facendo perdere i punti essenziali, con ciò la giustizia del caso.
È luogo comune, la causa la fanno gli avvocati. Il loro apporto è determinante nel disporre le questioni per la decisione. L’avvocatura è missione che richiede la cultura del sistema e l’etica nello svolgimento, che soltanto un’accurata selezione è in grado di assicurare: l’avvocato è già quasi giudice, precorre il giudice nel risolvere la controversia con il collega. L’eccessivo numero degli avvocati non è la ragione minore della disfunzione. Il numero ridotto accentua il controllo etico. Vari anni fa non trovai un corrispondente francese che accettasse l’incarico in appello poiché la questione era ormai persa in presenza di una decisione sfavorevole di cassazione: nel distretto, importante, erano 24 gli avvocati abilitati all’appello; anche in Italia la Cassazione si era pronunciata sulla medesima questione già due volte, nello stesso senso, ma i ricorsi erano numerosi.
È utopia? Nel 1954 Piero Calamandrei sottolineava “Il giudice istruttore è ridotto assai spesso ad un meccanismo registratore di rinvii: par che non ami la conversazione diretta cogli avvocati, che potrebbe servire a semplificare la causa e a metterne in chiaro i punti essenziali; e gli avvocati, anch’essi, preferiscono scrivere le loro ragioni sulla carta bollata in stile curialesco, piuttosto che esporle al giudice alla buona, in forma persuasiva e dimessa”; “L’oralità ha bisogno di preparazione immediata: la scrittura permette di rimandare lo studio a miglior tempo; e questa è una buona ragione perché giudici e avvocati preferiscano la scrittura” (in Processo e democrazia).
Non basta il CSM a rendere democratica la giustizia, se nei fatti il processo non risponde alla sua funzione di rendere effettivo il Diritto che, spero bene, non si esaurisce nel penale. Mi piacerebbe trovare compendiata la storia dei problemi, discussi in sedi istituzionali, della giustizia civile (ed anche amministrativa) che la democrazia vorrebbe siano affrontati; che la regola richiede siano risolti per essere regola di Diritto.