Nel 2007 i fondi europei di private equity hanno realizzato operazioni per 194 miliardi di dollari e avevano nelle casse 197 miliardi; nel 2014 le operazioni hanno mosso 94 miliardi, ma la potenza di fuoco disponibile è salita a 298 miliardi, secondo dati Preqin. Sembra, dunque, che gli operatori del settore abbiano qualche imbarazzo a muoversi in un mondo a zero interessi, zero inflazione, basso costo del debito e alte valutazioni di mercato (dal 2008 al 2014 le borse europee sono cresciute dell’85% e il price/earnings ratio è passato da 10,9 a 21,2).
Il paper “Does Private Equity Generate Value?”, a cura di Stefano Gatti e Carlo Chiarella del Centro Baffi Carefin della Bocconi, in collaborazione con Goldman Sachs, individua nelle pressioni contrastanti a utilizzare il denaro raccolto senza però pagare un prezzo eccessivo e nella forte concorrenza dei corporate takeover (acquisizioni societarie) i motivi dell’utilizzo ancora inefficiente che il private equity fa del denaro raccolto.
Per arrivare a queste conclusioni, gli studiosi analizzano tutte le 31.792 operazioni registrate da Bloomberg dal 2005 al 2014, ovvero 4.088 operazioni di private equity per un valore totale di 648,7 miliardi di dollari e 27.704 corporate takeover per un valore di 2.900 miliardi e le suddividono in tre periodi. Il periodo pre-crisi (2005-2008) è seguito da un periodo post-crisi (2009-2011), caratterizzato da buone condizioni di credito, basse valutazioni e incertezza diffusa tra gli investitori, e da un periodo post quantitative easing (2012-2014) caratterizzato da credito poco costoso, rinnovata fiducia degli investitori e alte valutazioni di mercato.
I dati mostrano che, al crescere dei prezzi di mercato, la quota relativa di operazioni di private equity scende, mentre aumentano i corporate takeover, perché le imprese sono meno preoccupate dai rendimenti delle operazioni e più interessate alle possibili sinergie industriali delle operazioni. Se nel periodo pre-crisi, inoltre, la dimensione media di un’operazione di private equity era 487 milioni di dollari e quella dei corporate takeover 235,7, nel 2014 il gap si è quasi annullato, con valori pari a 319,3 e 311,5 milioni.
L’analisi statistica evidenzia anche che la diminuzione dei buyout è quasi totalmente attribuibile alla diminuzione nelle operazioni che interessano settori in qualche modo sovrariscaldati, con quotazioni di mercato molto alte. Negli altri settori l’alto prezzo dell’impresa target non induce i fondi di private equity a tirarsi indietro.
I ricercatori del Centro Baffi Carefin concludono suggerendo che la possibile reazione degli operatori di private equity per trovare destinazione al denaro raccolto dovrebbe seguire due traiettorie già accennate: lo spostamento in direzione di target di dimensioni inferiori (in una rilevazione Preqin l’86% degli intervistati si attende una simile evoluzione) e la specializzazione in specifici mercati, perché il vantaggio competitivo degli operatori, in un mercato sempre più concorrenziale, sarà dato da expertise, capacità di selezione dei target ed efficiente esecuzione delle operazioni. Gli operatori si attendono, infatti, differenze nell’attività di private equity tra i diversi settori, con il farmaceutico, la distribuzione, la tecnologia e i media tra i più attivi.
Un ritorno ai livelli di operatività pre-crisi necessita, però, che si realizzi almeno una di due condizioni: un sostanziale miglioramento delle prospettive economiche o una decisa correzione delle quotazioni di mercato.