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Primo maggio 2024: i lavoratori hanno bisogno di unità ma i referendum di Landini la allontanano

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Questo primo maggio 2024, nel quale ci auguriamo non si ripetano gli episodi di sopraffazione avvenuti nel recente 25 aprile, è per il sindacato italiano e più in generale per il paese un’occasione di riflessione assai impegnativa. Il mondo del lavoro deve fare i conti con due guerre militari combattute sul campo (da cui non si può uscire semplicemente invocando una tregua) e una guerra economica non meno pericolosa di estese dimensioni. Quest’ultima si svolge principalmente, anche se non esclusivamente, tra la Cina comunista e l’occidente industrializzato ed è stata favorita da una globalizzazione incontrollata che, permettendo il ricorso a pratiche di concorrenza sleale, ha finito per minacciare l’esistenza stessa di fondamentali settori produttivi delle democrazie occidentali.

Lavoro: oltre alle guerre c’è anche il fattore tecnologico da considerare

Alla criticità internazionali si aggiungono le conseguenze tutte da scoprire di un fattore tecnologico straordinario come l’intelligenza artificiale e le difficoltà di gestire i progetti cosiddetti “green” per l’energia, le abitazioni, il trasporto. Nel nostro paese è difficile ottenere un confronto costruttivo tra le forze politiche e sociali che sappia produrre un accettabile livello di condivisione per affrontare il risanamento dei conti pubblici e nello stesso tempo sostenere la crescita dell’economia e dell’occupazione. Il nostro rimane pur sempre il paese delle corporazioni. Ma il contrasto tra maggioranza e opposizione, con l’eccezione dei governi di unità nazionale di cui per il momento in Italia non si parla , è un fatto naturale dei regimi democratici. Invece da molti anni non si registrava una frattura interna al movimento sindacale in misura tale da mettere seriamente in discussione i rapporti unitari.

Non esiste più l’unità sindacale nemmeno come convergenza su specifici obiettivi

Si badi bene che realisticamente oggi per unità sindacale non si intende più l’unità organica delle organizzazioni (per più di una ragione impraticabile), ma più semplicemente la convergenza unitaria che si crea di volta in volta sui differenti obiettivi. Diventano più importanti le regole, imposte da una legge o frutto dell’autodeterminazione delle parti che nel caso di specie non possono che essere fondate da una parte sulla libertà di contrattazione sindacale, dall’altra su criteri accertati di rappresentatività delle organizzazioni. L’elemento di maggior coesione unitaria diventano le regole nel momento in cui Il sindacato tradizionale sembra essere profondamente diviso tra una linea massimalista guidata dal segretario della Cgil Maurizio Landini, una posizione più pragmatica che potremmo definire partecipativo-contrattuale mantenuta oggi dalla Cisl, una Uil che è alla faticosa ricerca di una nuova identità e una galassia di sindacati autonomi, alcuni anche importanti, ma che non riescono a ritrovarsi sotto un comune ombrello confederale.

Il referendum di Landini per cancellare il Job’s Act

L’approccio partecipativo contrattuale sembrava essere stata accettata da tutto il sindacato dopo il decennio travagliato 1984-1994 che aveva segnato la sconfitta del referendum abrogativo dei tagli di scala mobile voluto dal segretario del PCI Enrico Berlinguer. Oggi Landini rilancia con la raccolta di firme per un referendum che ha, tra l’altro, l’obiettivo del ripristino integrale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La Cgil ha l’obiettivo di cancellare l’aborrito renziano Job’s Act che nella fattispecie aveva come fine (assolutamente ragionevole a parere di chi scrive come incentivo all’assunzione) di rendere prevedibile, in assenza di cause di nullità vera in caso di discriminazioni, il costo di un licenziamento.

Un altro obiettivo del referendum landiniano è quello di rendere sempre più difficili i contratti a termine in nome della lotta alla precarietà. A nulla ahimè valgono i numeri che mostrano come la crescita importante di contratti a tempo indeterminato sia costituita da coloro che erano stati assunti a scadenza. A nulla vale osservare che è l’andamento dell’economia a produrre l’aumento dei posti di lavoro. Del resto se il referendum avesse successo l’impatto economico ma prima ancora psicologico, potrebbe portare a conseguenze opposte a quelle volute dai proponenti, come usava dire Amintore Fanfani: “veri e propri costruttori di mongolfiere che si afflosciano subito dopo la partenza”. La normativa complessivamente applicata in Spagna, che pure viene invocata da Landini ad esempio, su licenziamenti e lavoro a termine è significativa al riguardo. In ogni caso il sindacato sarebbe molto indebolito nel suo ruolo di autorità salariale e di governo della contrattazione.

Il salario minimo e l’applicazione dell’articolo 39

Purtroppo già ora le stesse organizzazioni tradizionali rischiano di essere accerchiate. Da una parte l’incauta, ancorché legittima, proposta di introduzione del salario minimo legale attribuirebbe nei fatti oltre che nella forma, alle forze politiche la determinazione di un valore contrattuale di tradizionale competenza delle parti sociali. Ma dall’altra incombe il richiamo della magistratura, non privo di fondamento, al rispetto dell’articolo 36 della Costituzione che afferma il principio di una equa e giusta retribuzione. Il fatto è che in questo momento i contratti collettivi di qualunque natura, in assenza dell’applicazione dell’articolo 39 della Costituzione, sono un atto privato che nella gerarchia delle fonti non ha alcun valore di legge e certamente non può essere considerato automaticamente una esplicitazione dell’articolo 36. Non a caso alcuni magistrati affermano, e con qualche ragione, che nessun contratto collettivo può sentirsi al riparo da un intervento della Giustizia. Il combinato disposto dei probabili effetti del Salario Minimo Legale potrebbe certo frenare gli interventi dei magistrati in alcune cause di lavoro ma non rafforzerebbe il ruolo di un sindacato che ha bisogno di contrattare ad ogni livello ed in particolare in sede aziendale, accompagnato da incentivi fiscali per gli incrementi di produttività, per rafforzare il suo rapporto con il mondo del lavoro. Solo l’applicazione dell’articolo 39, che stabilirebbe ex Lege anche i minimi retributivi, può favorire una crescita del ruolo sindacale a tutto campo. È vero che l’articolo 39 contiene residui delle norme corporative fasciste quando indica le categorie contrattuali predefinite e implicitamente nega la libertà contrattuale, ma non è questa la migliore occasione di rimediare ad una contraddizione sfuggita ai costituenti? Decine di volte la Costituzione è stata emendata, chi potrebbe opporsi oggi a cancellare un residuo del passato regime?

L’auspicio rivolto al sindacato, per questo primo maggio, dovrebbe esse quello di avviare una profonda riflessione, nel rispetto di tutti e con la condanna di ogni forma di violenza, per l’elaborazione di un progetto di rinascita italiana che vuol essere parte degli Stati Uniti d’Europa. È quello che serve per restituire ai lavoratori italiani uno strumento di guida, democratica e unitaria, di cui c’è sempre un gran bisogno nei momenti difficili.

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