Primarie americane, il gioco si fa duro. Nel weekend si è votato solo nel Wyoming, e solo sul fronte democratico. Ha vinto l’outsider Bernie Sanders, ma più che i 7 delegati che si è portato a casa in questa tappa (in una corsa in cui vince chi arriva a 2.383), è il trend che inizia a preoccupare l’establishment, finora compatto nel sostenere Hillary Clinton, tuttora favorita ma non più certa della vittoria finale: per il candidato socialista si tratta della settima vittoria di tappa consecutiva, e questo exploit inizia a far pensare a stampa e opinione pubblica che la candidatura dell’ex First Lady non sia così forte.
Oggi il vantaggio di Hillary è ancora solido (1.774 contro 1.117), ma solo grazie ai superdelegates, ovvero i membri del partito liberi di scegliere chi voteranno alla convention democratica di luglio: al momento quasi tutti le hanno garantito l’endorsement, ma se l’ex segretario di Stato del primo mandato di Obama dovesse farsi travolgere dall’onda Sanders, le cose potrebbero ancora cambiare. Intanto nelle ultime sette tappe (l’ultima vittoria di Clinton risale al 22 marzo in Arizona) il 70enne senatore del Vermont ha recuperato 110 delegati (204 a 94 il computo parziale).
Ora c’è tempo per riordinare le idee e per preparare l’assalto alla prossima tappa, decisiva, in programma il 19 aprile nello Stato di New York, dove Sanders ha già parlato diverse volte richiamando decine di migliaia di persone in piazza, soprattutto in quartieri disagiati come il Bronx. Va ricordato che al momento Hillary – che in passato è stata eletta senatrice in questo Stato – ha avuto la meglio presso le minoranze etniche, ma ora le cose starebbero cambiando e tra una settimana ci sarà un banco di prova fondamentale anche in questo senso. A fare la differenza più che il colore della pelle potrebbe essere l’età: Sanders fa impazzire i giovani, anche se il pericolo Trump potrebbe sempre indurre l’elettorato democratico a optare per il candidato “forte”.
Intanto entrambi i candidati sono scivolati sulla questione della metropolitana, molto sentita dagli abitanti della Grande Mela: prima Sanders ha tenuto a dire una settimana fa al Daily News che l’anno scorso lui la metro a New York l’ha presa, comprando un token. Peccato però che il token sia un ticket che non esiste più dal 2003, gli ha fatto notare il giornalista. Gaffe clamorosa per il candidato che vive nel Vermont dal 1968, ma che a New York (per la precisione a Brooklyn) ci è nato.
Non ha fatto di meglio Clinton che per dimostrare che l’avversario è un “finto candidato del popolo” si è fatta riprendere mentre si accingeva a prendere la metro alla fermata del Bronx, come un cittadino qualsiasi, armata di regolare MetroCard. Anche qui però il candidato, nel tentativo di mostrarsi come una persona normale, è inciampato sulla classica buccia di banana, perché Hillary ha dovuto passare la tessera cinque volte prima che il tornello si aprisse, denotando una scarsissima dimestichezza con il mezzo di trasporto pubblico. La moglie dell’ex presidente Bill si gioca molto a New York: sul proprio sito ha tenuto a ricordare che finora è lei il candidato più votato in assoluto, davanti a Trump (oltre 9 milioni di consensi, contro i poco più di 8 di Trump e i quasi 7 di Sanders), ma è consapevole che perdendo a New York l’ago della bilancia inizierebbe a pendere decisamente a favore del suo avversario.
Non è invece New York, al momento, l’epicentro dello scontro tra i candidati repubblicani. Ted Cruz sarà a Brooklyn, mentre Donald Trump ha preferito una conferenza stampa in un circolo da golf che possiede nei pressi di Los Angeles, e l’outsider (ormai fuori dai giochi) John Kasich un comizio nel Connecticut. Anche sul fronte repubblicano non mancano le gaffe: stavolta però non riguardano l’utilizzo della metropolitana ma la pizza. “Sia Trump che Kasich sono stati visti mangiare la pizza con forchetta e coltello”, ha scritto il New York Times, ricordando che per gli americani questa è un’assurdità. “Francamente è molto più comodo”, aveva detto già nel 2011 Trump, ospite della campagna elettorale di Sarah Palin ad una cena durante la quale entrambi non avevano usato le mani, scatenando la reazione dell’opinione pubblica: “Non mi piace mangiare la crosta”, ha ribadito il magnate.
Intanto Trump, che conduce la corsa con 742 delegati contro i 516 di Cruz (si vince a 1.237), sta cercando di dare una svolta alla sua campagna elettorale, nel tentativo di convincere gli scettici: per questo ha assunto un nuovo convention manager al termine “delle due settimane più brutte della sua breve carriera politica”, ha opinato il NY Times. In questo periodo di tempo è stato anche arrestato il campaign manager Corey Lewandowksy, per aver aggredito una giornalista in Florida. Il nuovo membro dello staff è Paul Manafort, un veterano di campagne elettorali repubblicane. La scelta ha anche ricevuto l’approvazione dell’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, amico personale di Trump: “Prendere Manafort è un passo nella giusta direzione”.
La verità però è che Trump continua ad essere inviso all’establishment del Partito repubblicano, che dopo aver praticamente perso le speranze di arginarlo tramite Ted Cruz, sta lavorando sul candidato-ombra Paul Ryan, un 46enne eletto deputato nel Wisconsin. Ryan non partecipa alle primarie ma sta conducendo una campagna parallela in attesa del verdetto, che potrebbe non premiare nessuno degli sfidanti: non è infatti detto che Trump, al momento favorito, arrivi al quorum per aggiudicarsi insindacabilmente la nomination. Il Washington Post ha stimato che da qui alla fine l’imprenditore dovrà aggiudicarsi il 63% dei delegati ancora da assegnare: missione ancora più improba per Cruz, che per vincere a sorpresa se li deve accaparrare quasi tutti (il 96%). Paul Ryan sarebbe certamente più gradito ai vertici del Grand Old Party: nel 2012 fu scelto come candidato alla vicepresidenza da Mitt Romney (poi sconfitto da Obama alle presidenziali). E’ un moderato, pur essendo anche lui fortemente conservatore: contrario all’aborto e ai matrimoni gay, lotta per l’abolizione delle tasse come ad esempio quelle sul guadagno in conto capitale o l’imposta sul reddito delle società.