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Primarie Usa, il consenso per Hillary alla prova dell’East Coast

L’esito pare ormai scontato, e la partita potrebbe virtualmente chiudersi già oggi: le Primarie americane, sia sul fronte democratico sia su quello repubblicano, affrontano il voto di cinque Stati della East Coast (Connecticut, Delaware, Rhode Island ma soprattutto Maryland e Pennsylvania), che mettono in palio un numero complessivo di delegati che, in caso di affermazione, ipotecherebbe le nomination di Hillary Clinton e Donald Trump alle presidenziali di novembre.

Ad entrambi manca poco, pochissimo per presentarsi alle rispettive convention forti di una maggioranza inattaccabile: all’ex first lady, sostenuta dall’establishment democratico, mancano da conquistare poco più di 400 delegati sui 1.668 rimanenti (di cui 462 in palio nella cinquina di oggi); mentre all’imprenditore, che ieri ha ricevuto Matteo Salvini e che – al contrario – ai vertici del Grand Old Party è a dir poco inviso, servono ancora meno di 400 delegati, ma in palio ce ne sono “solo” 674 e le regole della convention repubblicana potrebbero ancora mettergli i bastoni tra le ruote (i delegati possono cambiare il loro voto dalla seconda votazione in poi, se nella prima non si raggiunge quota 1.237).

Non riusciranno invece a mettergli i bastoni tra le ruote gli altri due candidati al trono repubblicano: Ted Cruz è ormai un flop acclarato, mentre il governatore dell’Ohio John Kasich, peraltro parecchio accreditato nei sondaggi in caso di sfida alle presidenziali con Clinton o Sanders, è in un buon momento ma difficilmente potrà recuperare il gap o – come nelle reali intenzioni dell’establishment del partito – fare in modo di togliere qualche delegato decisivo a Trump. I due hanno anche annunciato una maldestra alleanza per arginare Trump, ma la stampa l’ha già definita fallimentare: l’obiettivo era di dividersi gli Stati a seconda di dove i due si sentivano più forti, senza ostacolare l’altro.

Il Washington Post sta però anche riconoscendo i meriti del magnate 70enne, che dopo aver toccato l’apice del trash a marzo, con gaffe oltre i limiti dell’inaccettabile, ha dato ad aprile una svolta “presentabile” alla sua campagna elettorale. Innanzitutto assumendo il nuovo campaign manager Paul Manafort, molto più gradito ai leader storici del partito repubblicano (in particolare all’ex sindaco di New York Rudi Giuliani, amico personale di Trump), e poi, secondo il WP, “dando un taglio ai suoi comizi: molto più concisi e incisivi rispetto alla prolissa dialettica di Cruz”. E anche insistendo senza sosta nella battaglia quotidiana: dopo il voto di New York, che peraltro ha visto l’ennesimo imbarazzante trionfo dell’imprenditore dai propositi spesso misogini e xenofobi, “Cruz ha preso due giorni di vacanza mentre Trump è partito all’alba per l’Indiana”. Ma soprattutto, la sua campagna è sempre più costantemente supportata dalla base: “Trump manda tutti i giorni ai suoi sostenitori una lista di talking-points, grazie alle cui risposte sa sempre cosa dire nei dibattiti. La sua campagna ha iniziato a fare in modo che i suoi elettori siano più coinvolti e più coesi”, ha sancito il quotidiano statunitense.

La stessa stampa continua invece a non essere del tutto convinta dal successo ormai imminente di Hillary Clinton. Dopo la netta vittoria di New York, sempre il Washington Post ha titolato “Hillary vince, ma la sua reputazione è ai minimi”. Come dire: vince, ma non convince. I motivi, secondo il quotidiano di proprietà di Jeff Bezos, sono fondamentalmente tre: non è, innanzitutto, una grande “campaigner”. “I suoi sostenitori – scrive il WP – la definiscono come una tipa divertente, ma quello che appare in pubblico è una candidata legnosa e finta. La campagna non è il suo forte, a differenza del marito Bill che in questo era un maestro”.

C’è poi la questione delle email. Troppe, secondo alcuni opinionisti: “Hillary usa troppo la posta elettronica e lo faceva anche quando era segretario di Stato (all’epoca del primo mandato Obama, ndr), il che ha danneggiato la percezione – anche tra gli stessi elettori democratici – che lei sia davvero onesta e affidabile”. Il terzo punto secondo il WP è la sovraesposizione mediatica: “Il popolo americano la conosce da decenni, e la sovraesposizione è spesso il peggior nemico di un politico”.

Da parte sua, allo sfidante Bernie Sanders servirebbe ormai un miracolo per vincere. La sua campagna elettorale è stata però brillante, a tratti avvincente, e sicuramente lancia un chiaro messaggio ai vertici democratici, come ammesso dallo stesso vicepresidente Joe Biden: “Mi piace l’idea di dire ‘Possiamo fare molto di più’, perché effettivamente è così, possiamo farlo. Noi siamo il Partito democratico, dobbiamo ragionare così”, ha detto il vice Obama al New York Times. Perché questo non è bastato a convincere l’elettorato democratico? Per un semplice motivo: secondo lo stesso Sanders, che ha fatto della lotta alle disuguaglianze economiche e sociali il suo cavallo di battaglia, è perché “i poveri, in America, non vanno a votare”. Dichiarazione che ha destato qualche polemica ma che in realtà è assolutamente supportata dai fatti: leggendo i dati dell’US Census Bureau, risulta infatti verissimo che chi ha un grado di formazione più alto e un patrimonio maggiore, va più spesso a votare.

Anzi, in assoluto chi vota di più sono i cittadini dotati di advanced degree e con un reddito superiore o uguale a 150.000 dollari. E’ altresì vero però che i “poveri” che hanno votato, hanno spesso preferito Clinton a Sanders: più il coefficiente di Gini sulla disuguaglianza era alto, più è stato ampio il margine di vittoria di Hillary. Non solo: nella stragrande maggioranza degli Stati in cui si è già votato, l’ex first lady ha conquistato il voto della fascia di popolazione sotto i 50.000 dollari di reddito. Per una ragione altrettanto semplice, sempre spiegata dai dati del Census Bureau ripresi dal Washington Post: la popolazione più povera è in buona parte quella afro-americana, presso la quale Clinton ha il maggiore appeal. Appeal che è il retaggio della sua vicinanza a Obama, primo presidente nero e beniamino delle minoranze: in realtà, a quanto pare, Hillary non piace, ma potrebbe diventare il primo presidente donna degli Stati Uniti.

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