Apple, Papa Francesco, i messicani. Ovvero gli smartphone più venduti negli States, il leader spirituale di buona parte dell’elettorato cattolico e i latinos, che rappresentano quasi il 20% della popolazione statunitense, e di cui il 64% è originario del Messico, del Paese cioè che Donald Trump vorrebbe isolare con un muro. Il candidato repubblicano si sta mettendo contro tutti ma a quanto pare non importa, anzi: il suo consenso continua inesorabilmente a crescere e l’ex outsider si presenta al Super Tuesday di oggi, tappa decisiva delle primarie presidenziali in cui si vota in 11 Stati contemporaneamente, praticamente da favorito.
Finora per le primarie repubblicane (così come per quelle democratiche) si è votato in 4 Stati e lo spregiudicato magnate, dopo aver ben battagliato in Iowa, ha vinto nelle ultime tre tappe, con un consenso crescente che lo stesso The Economist ha definito “quasi inarrestabile”. Ora Trump è in testa con 87 delegati già conquistati (ne servono 1.237 per vincere), contro i soli 17 dell’ex favorito Ted Cruz e i 16 del giovane Marco Rubio. Due nomi latini, ma nonostante questo la comunità latina la conquista proprio Trump. “In Nevada – ha sempre osservato l’Economist – ha conquistato il 44% dei voti dei latinos, il che è sconcertante alla luce delle affermazioni offensive che ha fatto sui messicani. Ma il suo successo può essere spiegato con la sua capacità percepita di creare posti di lavoro e di fare soldi: rappresenta la cultura del successo attraverso il duro lavoro, che piace agli immigrati imprenditoriali. E poi sembra che Trump troverà compromessi per le sue politiche di immigrazione più intransigenti, una volta al potere”.
Le idee estremiste del magnate non si limitano alle questioni che riguardano Messico e immigrazione. Due giorni fa su Twitter Trump è arrivato a citare Mussolini (“Meglio un giorno da leoni che cento anni da pecora”) sostenendo poi, per giustificarsi, che gli piaceva la frase specifica e non necessariamente il pensiero politico del Duce italiano. Nel corso dell’ultimo infuocato congresso repubblicano, Trump ha persino ricevuto dai suoi avversari accuse di legami con il Klu Klux Klan e con la mafia. Ricevuto l’imbarazzante endorsement di David Duke, ex capo della setta tristemente nota per aver perseguitato per decenni la popolazione nera, il candidato repubblicano ha infatti esitato a prenderne nettamente le distanze. Tanto che il candidato democratico Bernie Sanders, per motivi anche generazionali particolarmente sensibile su questi temi, ha immediatamente commentato sulla sua bacheca Facebook: “Il primo presidente nero della storia non può essere succeduto da un hatemonger (un personaggio dei fumetti che ricorda volutamente Adolf Hitler, ndr) che rifiuta di condannare il KKK”. La stampa americana ha anche riportato il caso di un certo Fred Trump (a quanto pare solo omonimo del padre di Trump) arrestato in Giamaica nel 1927 per episodi di violenza razziale.
Non riguardano l’odio razziale ma non sono più edificanti le accuse di legami, ad esempio, con la S&A Construction, il cui proprietario era, negli anni ’80 ai tempi dell’affare, Anthony “Fat Tony” Salerno, boss mafioso del clan dei Genovesi ora condannato a 100 anni di carcere. Tutto questo però non sta affatto turbando l’elettorato: “Per molti repubblicani – ha commentato significativamente un veterano di Mitt Romney, l’ultimo sfidante del Grand Old Party nell’elezione dell’Obama-bis – Trump è più di una scelta politica. E’ una cartina di tornasole per testare polso e carattere”. Come dire: l’America profonda, in questi tempi di crisi e di guerra, ha bisogno di un uomo forte. In perfetta linea con l’ondata di populismi – di vario stampo – che non ha risparmiato neanche l’Europa occidentale.
Oggi si vota in Alabama, Arkansas, Colorado, Georgia, Massachusetts, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont e Virginia e in tutto vengono assegnati per il Congresso repubblicano più di 600 delegati: se Trump dovesse accaparrarsene un bel po’, sarebbe una bella spinta in vista della vittoria che si assegnerà a giugno. Intanto il 70enne imprenditore è già re dei social: su Facebook (e pure su Twitter) ha più di 6 milioni di seguaci, più di Clinton e Sanders messi insieme e senza paragone con i 2 milioni di Rubio e gli 1,3 di Cruz. L’unico a tenergli testa, a proposito di discriminazioni, è Ben Carson, unico candidato nero di questa tornata: per lui 5 milioni di follower ma una enorme delusione alle urne, dove ha raccolto finora la miseria di 4 delegati, persino uno in meno del quasi sconosciuto John Kasich, governatore dell’Ohio seguito da meno di 200mila persone su Facebook.
DEMOCRATICI – Sul fronte democratico la sfida è invece ridotta a due candidati, con la leadership di Hillary Clinton che per un attimo ha vacillato di fronte al fenomeno Bernie Sanders, ma che ora pare essersi rimessa in carreggiata. Dopo aver perso nella seconda tappa in New Hampshire, l’ex First Lady ha risalito la china aggiudicandosi gli appuntamenti in Nevada e South Carolina, con un trend di consenso crescente. In particolare nell’ultima tornata in South Carolina Clinton ha vinto col 73% delle preferenze, migliorando il suo 54% in Nevada e anche, come osserva il Washington Post, “il 59% col quale Obama aveva sconfitto proprio lei nel 2008”. “A giovare a Hillary – spiega ancora il quotidiano statunitense – è il sostegno delle minoranze: non solo la popolazione nera, da sempre vicina, ma ora anche i latinos”, che saranno decisivi per vincere in Texas, dove le primarie democratiche assegnano ben 222 delegati sugli 859 totali di questo Super Tuesday, e sui 2.123 complessivi che verranno assegnati nell’intero mese di marzo, il mese decisivo della campagna. Hillary conta anche sul sostegno della fascia di popolazione più anziana: benchè in questo segmento il suo vantaggio percentuale su Sanders non sia così netto come quello speculare del socialista nella fascia giovane (dove è arrivato a conquistare l’84% dell’elettorato), in termini numerici è sicuramente più proficuo.
“I giovani amano Sanders ma non andranno a votare – ricorda sempre il Washington Post -: benché la fascia under 30 rappresenti una percentuale più alta di popolazione di quella over 65, nel 2012 meno del 40% degli elettori 18-24 anni è andato a votare, contro quasi il 70% degli over 65 (e il 64% della fascia 46-64 anni)”. Non una buona notizia per il senatore del Vermont, che proprio sui giovani aveva centrato il suo programma elettorale, i cui cavalli di battaglia erano appunto l’iscrizione gratuita ai college e un sistema sanitario più equo, che andasse oltre l’Obamacare. “Entrambi insostenibili”, ha però sentenziato parte della stampa Usa, finendo per tirare la volata a Hillary Clinton, che al momento è in largo vantaggio per 544 delegati contro 85 (si vince a quota 2.383), considerando anche il decisivo contributo dei super delegates, ovvero di quei membri del Partito democratico che hanno già scelto, a prescindere dall’esito delle primarie, chi sostenere (il cosiddetto establishment, che ha in stragrande maggioranza optato per Clinton).
Nella decisiva tornata del Super Tuesday i sondaggi vedono favorita Hillary in sei Stati su 11, tra i quali il cruciale Texas e gli altri due che assegnano più delegati: la Georgia (che ha il 30% della popolazione di razza nera) con 102 e la Virginia con 95. E in generale negli Stati del Sud, dove c’è una percentuale più alta di minoranze etniche. Sanders, che comunque continua ad avere un’immagine più gradita ai giovani (“Liberi dai pregiudizi della Guerra Fredda – scrive il Washington Post – apprezzano il suo socialismo, che in versione moderna richiama i prosperosi e egualitari modelli scandinavi”), dovrebbe invece spuntarla in cinque Stati tra cui il Massachusetts, il feudo dei Kennedy, e il Vermont, dove è stato eletto senatore ma che assegna solo 16 delegati. In generale Sanders è favorito negli Stati più a nord, a maggioranza bianca e a vocazione più industriale, dove si concentrano i “working-class voters”. Quella categoria di elettori che “non vedono più il capitalismo come un modello così vincente e intoccabile: anzi, un recente sondaggio condotto da YouGov – scrive il WP – ha rivelato che il 43% degli under 30 statunitensi ha un’opinione positiva del socialismo, mentre solo il 32% la pensa altrettanto bene sul capitalismo”.
Se i pronostici verranno rispettati, la moglie dell’ex presidente degli anni ’90 metterà a segno un decisivo allungo verso la vittoria finale. La sfida dei social al momento è invece in pareggio: su Facebook vince Sanders (3 milioni di seguaci contro i 2,5 dell’avversaria), mentre su Twitter domina il profilo di Hillary, sul quale incombe tuttavia il fantasma di quello dell’ingombrante marito Bill, che ha quasi i suoi stessi follower (oltre 5 milioni), nonostante sia relativamente poco esposto in questa campagna.