“L’America è pronta per Trump così come l’Italia era pronta per Berlusconi”. Il paragone tanto atteso non tarda ad arrivare: ci pensa il New York Times in un editoriale firmato da Roger Cohen, ex corrispondente in Italia per il Wall Street Journal. I punti di contatto tra l’ex premier italiano e l’uomo che sta – contro ogni pronostico – guadagnandosi la nomina a candidato repubblicano alle elezioni presidenziali statunitensi, non sono effettivamente pochi: “Il percorso dal real estate alla televisione – scrive Cohen -, l’ammirazione per Vladimir Putin, l’ossessione per la virilità, la punta di bigottismo, il disprezzo per i ‘secchioni’ della politica, la dipendenza dal tell-it-like-it-is (la scarsa diplomazia, ndr). E poi la ricchezza accumulata, e i media che hanno insegnato loro che nessuno ha mai perso scommettendo sulla stupidità umana”.
C’è anche – con le dovute proporzioni – la tendenza a esacerbare i toni, che ha costretto tre giorni fa Donald Trump ad annullare il comizio di Chicago, dove si sono registrati violenti scontri (feriti due poliziotti) e alcuni manifestanti sono stati fotografati mentre eseguivano il saluto nazista. Immagini che hanno scioccato l’America: “Ha creato lui questo clima”, accusa lo sfidante Ted Cruz, che spera di costruire su questi incidenti la sua rimonta nelle primarie repubblicane. “Non è un incidente – sostiene sempre sulle colonne del NYT il premio Nobel Paul Krugman -: il fenomeno Trump è frutto della stessa politica del Partito repubblicano, che per decenni ha alimentato nella popolazione questa rabbia che ora Trump cavalca. Tale rabbia doveva prima o poi sfuggire al controllo dell’establishment”.
E’ in questo clima che oggi le primarie che designeranno a giugno il candidato presidente del Grand Old Party affrontano un’altra tappa decisiva: si vota in 6 Stati, in tre dei quali (l’importantissima Florida, le Isole Marianne e l’Ohio) vale la formula del winner-take-all. Vale a dire nessuna distribuzione proporzionale dei delegati, ma chi vince piglia tutto: questi tre Stati valgono in tutto 174 delegati da assegnare al solo vincitore, e in più se ne distribuiscono altri 193 tra Illinois, Missouri e North Carolina. “Questo martedì potrà consolidare il vantaggio dei front-runner (Trump e Hillary Clinton sul fronte democratico, ndr) oppure dare nuova linfa agli inseguitori”, scrive il Washington Post. Trump al momento è in vantaggio: 460 delegati contro i 370 raccolti finora dal più moderato Ted Cruz. Vince chi arriva a 1.237: un traguardo che dopo questa tornata potrebbe davvero avvicinarsi per il magnate 70enne, che ha vinto l’ultima tappa significativa una settimana fa, aggiudicandosi tre Stati su quattro e contenendo il tentativo di rimonta del 45enne governatore del Texas.
DEMOCRATICI – Sul fronte democratico la campagna prosegue invece in maniera più tranquilla: oggi si vota in 5 Stati (gli stessi delle primarie repubblicane escluse le Isole Marianne) e si assegnano quasi 800 delegati. Hillary Clinton è ancora saldamente al comando: contando i superdelegati, ovvero i membri del partito che voteranno a suo favore al Congresso a prescindere dall’esito delle primarie, ha più del doppio dei delegati dello sfidante Bernie Sanders (1.234 contro 579, si vince a 2.383). L’ex First Lady è dunque a oltre metà dell’opera, anche se senza i superdelegates il duello sarebbe molto più serrato: 767-553 il punteggio ottenuto finora “sul campo”.
La rimonta del 74enne socialista, che nel suo programma ha inserito il minimo salariale e il college gratuito per tutti, è pertanto improbabile anche se nell’ultima importante tornata, nel Michigan, non sono mancati segnali di un’inversione di tendenza nel consenso. Fermo restando che Hillary ha l’assoluto controllo dell’elettorato over 50 e della popolazione nera, Sanders si sta consolidando idolo dei giovani e preferito della popolazione bianca, ma a Detroit e dintorni ha insidiato l’egemonia di Clinton anche tra i black: il 30% ha votato per lui, mentre erano stati mediamente sotto il 20% nelle precedenti tappe delle primarie. E poi c’è la questione dei working-class voters, che nel mid-west industriale ha ancora più peso che altrove (oggi si vota nell’Illinois di Chicago e nell’Ohio di Cleveland), e soprattutto dei disoccupati: “Il Michigan – scrive il WP – ha perso un sacco di posti di lavoro nel settore manifatturiero negli ultimi 25 anni (passando al 21 al 14% della forza lavoro complessiva, ndr), anche a causa degli accordi di libero scambio tipo NAFTA”. L’accordo di libero scambio tra Usa, Canada e Messico, accusato di aver messo in ginocchio il sistema manifatturiero, è uno dei cavalli di battaglia di Sanders, a quanto pare abbastanza vincente.
“L’opposizione agli accordi di libero scambio – ha scritto il New York Times – potrebbe aiutare Sanders in Ohio, Illinois e Missouri, anche perché l’elettorato non dimentica che tali accordi sono stati sostenuti da Hillary Clinton quando il marito era presidente”. Il giornale sottolinea anche il fervente impegno di Sanders sul caso di Flint, città sempre del Michigan dove è venuta a mancare l’acqua potabile, al cospetto delle “tiepidi dichiarazioni della signora Clinton sulla necessità di fare piazza pulita alla Environmental Protection Agency dell’amministrazione Obama”. Il quotidiano newyorchese ha anche invitato la candidata favorita dall’establishment a “smettere di legare l’immagine di Sanders alla National Rifle Association (l’associazione dei detentori di arma da fuoco, molto influente negli States, ndr)”. In realtà entrambi i contendenti (a differenza dei candidati repubblicani) sono favorevoli a nuove leggi dopo l’escalation di stragi, ma Clinton rinfaccia a Sanders l’endorsement ricevuto via Twitter della NRA. “Sanders ha speso decenni contro la discriminazione razziale, la povertà e la violenza armata. Suggerire il contrario è sbagliato”, sostiene il NYT.
PRONOSTICI – La tabella “delegate calculator” del New York Times, che elabora i risultati in proiezione sulla base dei consensi dell’ultima tornata delle primarie, vede ancora Trump favorito per la vittoria finale al congresso del Grand Old Party, che si determinerà a giugno. La “matematica” potrebbe arrivare proprio nella cruciale tappa della California, il 6 giugno. Ma questo a patto che i contendenti rimangano ancora così numerosi: se invece Marco Rubio e John Kasich (rispettivamente senatore della Florida e governatore dell’Ohio, tra gli Stati dove si vota oggi) dovessero abbandonare dopo il voto di oggi, i sondaggi prevedono una schiacciante vittoria di Cruz con il 75% dei consensi da qui a giugno. Dopo le polemiche degli ultimi giorni, e visto che sia Rubio sia Kasich sono quasi fuori dai giochi, questa circostanza appare sempre più possibile. Decisivo sarà proprio il voto in Florida, che assegna 99 delegati al solo vincitore, e che potrebbe rimettere in corsa il candidato di origine cubana, che gioca in casa. Sul fronte democratico invece difficilmente ci sarà margine per la rimonta di Sanders, ma questo soprattutto in virtù del sostegno dell’establishment a Hillary Clinton. Alla quale basta tenere il ruolino di marcia avuto finora: un consenso non del tutto netto, a indicare comunque una preferenza – anche tra l’elettorato democratico – per i candidati “out of mainstream”.