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Previdenza complementare: far leva sulla decontribuzione per incrementarla con l’aiuto anche del fisco

Sono allo studio nuovi meccanismi per aumentare le adesioni alla previdenza complementare. La partecipazione ai fondi pensione negoziali e ai Pip è cresciuta, ma vi è un gap di genere e un’insufficiente adesione dei giovani. Tra le possibili soluzioni: destinare le quote di decontribuzione alla previdenza complementare, esentandole da oneri fiscali, e farle confluire al lordo sui conti individuali dei lavoratori

Previdenza complementare: far leva sulla decontribuzione per incrementarla con l’aiuto anche del fisco

Per quanto riguarda la previdenza complementare sono allo studio nuovi meccanismi per incrementare le adesioni. A questo proposito, in un recente documento di proposte Assogestioni ha lamentato che ad oggi i fondi pensione, nonostante le iniziative realizzate, investono nell’economia del Paese una quota ancora poco significativa delle risorse in gestione. Di conseguenza ci sono margini per incentivare la crescita del sistema della previdenza complementare, quale elemento centrale per assicurare un adeguato livello di copertura previdenziale ai futuri pensionati e per dare nuovi stimoli allo sviluppo della nostra economia.

Dati sui fondi negoziali

I fondi negoziali contano 3,9 milioni di iscritti (+5,4% rispetto al 2022). Ma la metà delle nuove adesioni – certifica la Covip nell’ultimo rapporto – è da ricondurre al meccanismo dell’adesione contrattuale; mentre continuano a crescere anche le iscrizioni nel settore del pubblico impiego attraverso il meccanismo del silenzio-assenso per i lavoratori di nuova assunzione. In sostanza, la volontarietà di adesione – che è uno dei cardini della previdenza a capitalizzazione – è diventata facoltà di sottrarsi alle forme di adesione automatica tramite la modalità classica del silenzio-assenso e quella nuova di adesione sancita dal contratto collettivo a carico dei datori di lavoro.

Fondi aperti e Pip: numeri in crescita

I dati che saltano agli occhi riguardano l’incremento pressoché analogo dei fondi aperti (+5,9%) per 1,9 milioni di iscritti, ma ancor più i 3,9 milioni di sottoscrittori dei Pip, lo stesso numero degli aderenti ai fondi pensione negoziali che rappresentano il prodotto tipico della previdenza privata. L’altro caso di eterogenesi dei fini viene allo scoperto osservando la composizione degli iscritti secondo le principali caratteristiche socio-demografiche: gli uomini sono il 61,7% degli iscritti alla previdenza complementare (il 72,7% nei fondi negoziali), confermando il gap di genere, e rendono evidente la composizione delle platee sindacalizzate oggetto dei negoziati. In sostanza, per tanti motivi, tra cui la presenza di lavoratrici nei settori in cui sono stati costituiti i principali fondi negoziali, assume un rilievo particolare che nelle forme di mercato le donne raggiungono il 42,6% nei fondi aperti e il 46,6% nei Pip. In sostanza sono in numero, maggiore le lavoratrici che provvedono in proprio ad aderire ad una forma di previdenza complementare di quelle che vengono coinvolte dal negoziato collettivo.

Giovani e previdenza: una sfida aperta

L’altro aspetto critico che non sarà mai sottolineato abbastanza è la ridotta partecipazione dei giovani i soggetti che nell’impostazione strategica dovevano essere i maggiori utenti, per compensarla minore copertura del sistema pubblico, in conseguenza delle riforme. Come fa notare la Covip, in base all’età, gli iscritti sono prevalentemente concentrati nelle classi intermedie e più prossime al pensionamento (gap generazionale): il 47,8% degli iscritti ha un’età compresa tra 35 e 54 anni, il 32,9% ha almeno 55 anni. 

Pur attestandosi ancora su percentuali inferiori rispetto alle altre fasce, negli ultimi anni il peso della componente più giovane (fino a 34 anni) sul totale degli iscritti è comunque cresciuto, passando dal 17,6% del 2019 al 19,3% del 2023. Cresce infatti, – spiega il rapporto – tra le nuove adesioni, la quota di soggetti fiscalmente a carico, la cui iscrizione viene indirizzata prevalentemente a favore delle forme di mercato. Ciò rispecchia decisioni familiari di aprire una posizione previdenziale per i propri figli in vista di una successiva alimentazione con versamenti autonomi una volta che essi entreranno nel mondo del lavoro. È a questo punto che il rapporto mette i piedi nel piatto e mette in evidenza ciò che il dibattito si ostina ad ignorare.

‘’Il diverso coinvolgimento nel mercato del lavoro – è scritto – contribuisce a spiegare in larga parte le differenze nella partecipazione alla previdenza complementare in un’ottica di genere e per classi di età’’. 

Partecipazione alla previdenza complementare per fasce d’età

Rispetto alle forze di lavoro, infatti, la partecipazione alla previdenza complementare cresce all’aumentare dell’età: tra i 15 e i 34 anni si attesta al 27,4%, per salire al 32,8% nella fascia compresa tra 35 e 44 anni, al 36% nella classe 45-54 e infine al 45% tra 55 e 64 anni. Rispetto a cinque anni prima, il tasso di partecipazione della classe più giovane cresce di 6 punti percentuali e quello delle altre fasce di 3,5-4 punti percentuali. Tra i tanti motivi di una siffatta situazione, uno riguarda certamente la presenza di una base economica inadeguata a disposizione delle generazioni più giovani. Al di là delle carenze di una educazione finanziaria che induca i giovani a privarsi di quote di reddito oggi nella prospettiva di una maggiore sicurezza domani, esiste una questione dirimente.

Il nodo del finanziamento della previdenza privata

Quale è la principale fonte di finanziamento della previdenza privata? Il tfr/tfs, ovvero una erogazione monetaria prevista solo nel caso di lavoro subordinato: in pratica un 6-7% della retribuzione che diventa disponibile e che funge da massa critica a cui aggiungere i contributi a carico del datore e dei lavoratori. Il conferimento del tfr maturando è disciplinato da una procedura complessa che prevede anche una forma di silenzio-assenso quando il lavoratore trascorso il semestre a disposizione non effettua alcuna opzione consentendo così al datore di allocare la sua quota di tfr al fondo pensione di riferimento. Il fatto è che anche in questa materia vale il criterio del ‘’primum vivere’’. Facciamo il caso di un lavoratore assunto a termine; per lui il tfr è una modesta appendice della sua retribuzione, non può versarlo in un fondo pensione di una categoria a cui potrebbe non appartenere nel prossimo rapporto temporaneo. Per non parlare di quei rapporti di lavoro definiti parasubordinati nei quali l’erogazione del tfr non è prevista.

Proposte per un nuovo finanziamento

Se la previdenza complementare non ha attecchito nemmeno nel lavoro autonomo tipico, possiamo ritenere che in certi settori deboli del mercato del lavoro possa reggere in forma di out of pocket? Occorre trovare un’altra forma di finanziamento su di un cespite a disposizione di tutte le tipologie di rapporti di lavoro: la contribuzione obbligatoria ovvero consentire al lavoratore di optare per l’allocazione alla previdenza privata di alcuni punti dell’aliquota obbligatoria. L’ipotesi viene definita di opting out e si basa sui migliori rendimenti che i mercati possono offrire nel lungo periodo rispetto a quelli previsti dalla legge (nel sistema contributivo il pil). Questa ipotesi era affacciata con molta cautela nella riforma Fornero con questa formulazione: ‘”Analogamente, e sempre nel rispetto degli equilibri e compatibilità succitati, saranno analizzate, entro il 31 dicembre 2012, eventuali forme di decontribuzione parziale dell’aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi in particolare a favore delle giovani generazioni, di concerto con gli enti gestori di previdenza obbligatoria e con le Autorità di vigilanza operanti nel settore della previdenza’’.

Possibili soluzioni: decontribuzione e sterilizzazione fiscale

Quando venne disposta la norma programmatica (rimasta poi lettera morta) erano evidenti le implicazioni negative riguardanti l’alea gravante sull’effettivo vantaggio di affidarsi al mercato al posto dello Stato e soprattutto la riduzione del finanziamento della previdenza obbligatoria in un sistema a ripartizione. Ora però c’è un fatto nuovo: la decontribuzione di 6 punti percentuali, se la retribuzione imponibile, calcolata su base mensile per 13 mensilità, non supera i 2.692 euro al mese; di 7 punti percentuali, se la retribuzione imponibile, calcolata su base mensile per 13 mensilità, non supera i 1.923 euro al mese. Non è ancora una norma di carattere strutturale, ma il governo è intenzionato a rinnovarla, caricandosi del costo dell’operazione. La norma è rivolta ad aumentare le buste paga dei lavoratori dipendenti e sarebbe uno scherzo da prete allocarne l’incremento ope legis alla previdenza complementare.

Potrebbe esserci una via di mezzo meno onerosa e comunque conveniente per il lavoratore. Poiché la decontribuzione non è al riparo dall’eventuale applicazione di un’aliquota fiscale più elevata, si potrebbe stabilire, magari in via sperimentale, che le quote corrispondenti alla decontribuzione che vengano destinate a una forma di previdenza complementare, siano sterilizzate dagli adempimenti tributari e confluiscano, al lordo, sulle posizioni individuali dei lavoratori. Questa potrebbe essere una norma di carattere generale con particolare riguardo ai redditi più bassi che hanno difficoltà a ridurre il reddito disponibile.

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