La Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip) ha presentato nei giorni scorsi il rapporto 2024 relativo a tutto l’anno precedente. Poiché nel 2023 ricorrevano i trent’anni dalla istituzione – con una legge organica – della previdenza privata a capitalizzazione (il cosiddetto secondo pilastro) è il caso di tracciare un bilancio di sintesi sui risultati e le criticità del settore rispetto alle aspettative e al ruolo assegnato dal legislatore a cui va rimproverata una inerzia e un disinteresse che durano da almeno vent’anni. L’unico intervento di un certo rilievo da annoverare in questo arco temporale è consistito in un ragguardevole incremento del prelievo sui rendimenti che non è più stato modificato (era pari all’11%; si diceva che doveva essere ridotto al 6%; venne elevato al 20%).
Le adesioni
Alla fine del 2023, alle forme pensionistiche complementari (fondi negoziali o chiusi, fondi aperti e Pip, al netto delle adesioni in contemporanea a più forme) aderivano erano iscritti è pari a 9,610 milioni (+4 per cento sull’anno precedente). I fondi negoziali registravano un incremento di 211.000 posizioni rispetto alla fine dell’anno precedente (+5,5 per cento), per un totale che supera i 4 milioni. In proposito merita una particolare attenzione la circostanza che gli incrementi maggiori sono dipesi da alcune innovazioni introdotte dalla contrattazione collettiva (l’adesione per via della contrattazione collettiva): nel settore edile (+87.700 posizioni), in conseguenza del versamento di un contributo, ancorché di importo modesto, a carico del solo datore di lavoro; nel fondo del pubblico impiego (+37.600 posizioni), attraverso l’adesione anche tramite silenzio-assenso per i lavoratori di nuova assunzione. Si aggiungono poi; nel fondo destinato al settore del commercio, turismo e servizi 15.700 posizioni in più.
Nelle forme pensionistiche di mercato, si contano 109.000 posizioni in più nei fondi aperti (+5,9 per cento) e 83.000 in più nei Pip (+2,2 per cento); alla fine dell’anno, il totale delle posizioni in essere in tali forme è pari, rispettivamente, a 1,950 milioni e 3,781 milioni. Non ci sono dati aggiornati relativi ai fondi preesistenti che sono interessati da un positivo processo di aggregazione e diminuzione.
Rispetto all’occupazione, il 37,6% dei lavoratori dipendenti aderisce a forme complementari contro il 23,5% dei lavoratori autonomi; la forbice si allarga considerando i soli iscritti per i quali risultano effettuati versamenti, molto meno presenti tra gli autonomi. Quanto all’area geografica, il tasso di partecipazione supera la media nazionale nelle regioni settentrionali, soprattutto laddove l’offerta previdenziale è integrata da iniziative di tipo territoriale; valori più bassi e decisamente inferiori alla media si registrano, invece, in gran parte delle regioni meridionali
Le criticità
Da alcuni anni, pur in presenza di un costante aumento degli scritti è ragguardevole (superiore a 2 milioni di “anime morte”) il numero di coloro che hanno cessato di versare i contributi. Gli iscritti versanti nel 2023, escludendo dal computo i Pip “vecchi”, sono stati 6,7 milioni, il 72,4% del totale. Gli iscritti non versanti, pari a circa 2,6 milioni, erano più frequentemente presenti nelle forme di mercato e tra i lavoratori autonomi. Una parte cospicua è anche costituita da lavoratori dipendenti iscritti a fondi pensione negoziali con modalità contrattuale, con particolare riguardo a settori, come quello edile, il cui bacino è caratterizzato da elevata discontinuità occupazionale
Il dato riferito alle posizioni individuali è significativo perché si avvicina sempre più a quello dei fondi pensione (il tipico prodotto della contrattazione collettiva) tanto più che tra i sottoscrittori di queste polizza è prevalente il numero dei lavoratori dipendenti, a conferma di un’esigenza di previdenza complementare (secondo pilastro) che non trova adeguata risposta attraverso la contrattazione collettiva. Nel 2022 ai Pip “nuovi” (2,243 milioni) era iscritto il doppio dei lavoratori dipendenti aderente ai fondi aperti (1,007 milioni). Sommando le ultime due cifre si otteneva un notevole ricorso all’uso individuale della previdenza privata che resta un fenomeno confermato.
Con riferimento alla composizione degli iscritti secondo le principali caratteristiche socio-demografiche, gli uomini sono il 61,7% degli iscritti alla previdenza complementare (il 72,7% nei fondi negoziali), confermando il gap di genere. Nelle forme di mercato le donne raggiungono il 42,6% nei fondi aperti e il 46,6% nei Pip.
In base all’età gli iscritti sono prevalentemente concentrati nelle classi intermedie e più prossime al pensionamento (gap generazionale): il 47,8% degli iscritti ha un’età compresa tra 35 e 54 anni, il 32,9% ha almeno 55 anni. Pur attestandosi ancora su percentuali inferiori rispetto alle altre fasce, negli ultimi anni il peso della componente più giovane (fino a 34 anni) sul totale degli iscritti è comunque cresciuto, passando dal 17,6% del 2019 al 19,3% del 2023. Cresce infatti, tra le nuove adesioni, la quota di soggetti fiscalmente a carico, la cui iscrizione viene indirizzata prevalentemente a favore delle forme di mercato. Ciò rispecchia decisioni familiari di aprire una posizione previdenziale per i propri figli in vista di una successiva alimentazione con versamenti autonomi una volta che essi entreranno nel mondo del lavoro.
Il diverso coinvolgimento nel mercato del lavoro contribuisce a spiegare in larga parte le differenze nella partecipazione alla previdenza complementare in un’ottica di genere e per classi di età. Rispetto alle forze di lavoro la partecipazione alla previdenza complementare cresce all’aumentare dell’età: tra i 15 e i 34 anni si attesta al 27,4%, per salire al 32,8% nella fascia compresa tra 35 e 44 anni, al 36% nella classe 45-54 e infine al 45% tra 55 e 64 anni. Rispetto a cinque anni prima, il tasso di partecipazione della classe più giovane cresce di 6 punti percentuali e quello delle altre fasce di 3,5-4 punti percentuali.
Le risorse destinate alle prestazioni
Le risorse destinate alle prestazioni ammontavano a 222,6 miliardi di euro, in crescita dell’8,2 %, rispetto ai 205,6 miliardi di fine 2022. Circa i tre quinti dell’incremento è dipeso dal miglioramento dei corsi dei titoli in portafoglio; il resto era dovuto ai flussi contributivi al netto delle uscite. L’attivo netto era di 67,9 miliardi di euro nei fondi negoziali, aumentato dell’11,1% rispetto alla fine dell’anno precedente; esso si attestava a 32,6 miliardi nei fondi aperti e a 49,9 miliardi nei Pip, rispettivamente, il 16,3% e il 9,8% in più nel confronto con la fine del 2022. Nel corso del 2023 l’ammontare dei contributi incassati da fondi negoziali, fondi aperti e PIP è stato pari a 14,7 miliardi di euro, in crescita del 5,7 % sul 2022. L’incremento è risultato del 7,7 % nei fondi negoziali e del 7,4 nei fondi aperti, mentre è stato minore nei Pip (2,3 %)
I fondi negoziali detenevano il 30,2% del totale delle risorse, i fondi aperti il 14,5% e i PIP il 25,3%; il peso dei fondi preesistenti, pari al rimanente 30% del totale, per la prima volta quest’anno non è risultato prevalente rispetto a quello dei fondi negoziali. I contributi incassati nell’anno sono pari a 19,2 miliardi di euro (+5,2% rispetto al 2022), in crescita in tutte le forme pensionistiche complementari: nei fondi negoziali sono stati raccolti 6,5 miliardi di euro (+7,7%); nei fondi aperti 3,1 miliardi (+7,4%), nei Pip “nuovi” 5,1 miliardi di euro (+2,3%); nei fondi preesistenti sono confluiti 4,3 miliardi di euro (+3,8%). Sulle posizioni dei lavoratori dipendenti sono confluiti 15,8 miliardi di euro di contributi, in crescita di 961 milioni rispetto all’anno precedente. Di questi, 7,8 miliardi di euro riguardano quote di Tfr; i contributi a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro sono pari, rispettivamente, a 5 e 2,9 miliardi di euro. Per i lavoratori autonomi sono confluiti versamenti per 1,7 miliardi di euro, 29 milioni in più rispetto al 2022.
Anticipazioni e riscatti
Le anticipazioni e i riscatti intervenendo a ridurre il montante contributivo confermano che la previdenza complementare ha assunto le caratteristiche di un investimento piuttosto che il valore di risparmio previdenziale. Le anticipazioni (che costituiscono un motivo di competizione con il Tfr e che non facilitano il ruolo della finanza previdenziale) sono risultate pari a 2,3 miliardi, di cui 939 milioni nei fondi negoziali e 768 milioni in quelli preesistenti. Tra le causali, spiccano l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa di abitazione, con erogazioni di 1,1 miliardi di euro e un importo medio di 30mila euro e quella per motivi non riconducibili a una specifica fattispecie, 1,1 miliardi in totale per un importo medio di 8,4 mila euro.
Per i riscatti, 2 miliardi di euro in totale, la maggior parte dei quali si è concentrata nei fondi negoziali con 850 milioni e nei fondi preesistenti con 677 milioni. La quota maggiore dei riscatti è formata da quelli totali: 1,6 miliardi di euro per un importo medio di 15.800 euro. Le rendite integrative temporanee anticipate (“Rita”) sono aumentate: l’erogazione complessiva è stata di 1,6 miliardi di euro (357 milioni in più rispetto al 2021), per un importo medio di 57mila euro; la gran parte delle erogazioni, 1,4 miliardi di euro (306 milioni in più sul 2021), si è concentrata nei fondi preesistenti. Sono state 28.800 le posizioni interessate da erogazioni di “Rita”, in crescita rispetto alle 22.500 dell’anno precedente; di queste, 22.200 hanno riguardato l’intero montante accumulato.
Nel 2023 le uscite per la gestione previdenziale ammontavano complessivamente a 11,6 miliardi di euro. Le prestazioni pensionistiche sono state erogate in capitale per 4,5 miliardi di euro e in rendita per 401 milioni di euro. Pur essendo le risorse destinate alle prestazioni corrispondenti al 10,8 % del Pil e al 4% delle attività finanziarie delle famiglie italiane, la previdenza complementare più che svolgere un ruolo di ‘’secondo pilastro privato’’ e di carattere collettivo/contrattuale, è configurabile come una forma di investimento finanziario, sufficientemente garantita e agevolata sul piano fiscale, che consente, inoltre, di avere disponibile (come contribuzione e con le relative previste possibilità di anticipazioni più ampie) un’erogazione (il Tfr) nel corso e non alla fine del rapporto di lavoro, piuttosto che una prestazione che svolge un ruolo complementare del trattamento obbligatorio.
Rendimenti
Quanto ai rendimenti, nel 2023 tutte le tipologie di forme pensionistiche e di comparti hanno registrato in media risultati positivi, con valori più elevati per le gestioni con una maggiore esposizione azionaria. Per i comparti azionari si riscontrano rendimenti in media pari al 10% nei fondi negoziali, all’11,3% nei fondi aperti e all’11,4% nei Pip. Nelle linee bilanciate i risultati sono in media pari al 6,9 % nei fondi negoziali, all’8,3 nei fondi aperti e al 7,1 nei Pip; più contenuti sono i rendimenti dei comparti obbligazionari e garantiti.
Valutando i rendimenti su orizzonti temporali più coerenti con le finalità del risparmio previdenziale, negli ultimi dieci anni (da inizio 2014 a fine 2023) i rendimenti medi annui composti delle linee a maggiore contenuto azionario si collocano intorno al 4-4,5 per cento per tutte le tipologie di forme pensionistiche; per le linee bilanciate, i rendimenti medi sono compresi tra il 2 e il 3 per cento. Le linee garantite e quelle obbligazionarie mostrano invece rendimenti medi vicini allo zero o di poco superiori; le gestioni separate di ramo I dei PIP, che contabilizzano le attività al costo storico e non al valore di mercato, ottengono un rendimento dell’1,8%. In sostanza il rendimento delle forme pensionistiche ha retto e talvolta superato la sfida con il Tfr la cui rivalutazione ope legis, nello stesso periodo, è risultata pari al 2,4%. Tutti i comparti azionari e anche una buona parte dei bilanciati mostrano rendimenti più elevati rispetto agli altri e al Tfr. Per ciascuna tipologia di linea di investimento, i fondi negoziali mostrano nel complesso una dispersione dei rendimenti dei singoli comparti inferiore a quella che registrano fondi aperti e Pip.
L’allocazione degli investimenti
Gli investimenti dei fondi pensione (escluse le riserve matematiche presso imprese di assicurazione e i fondi pensione interni a enti e società) sono prevalentemente allocati, per il 56% del totale, in obbligazioni governative (il 14,1% sono titoli del debito pubblico italiano) e altri titoli di debito. I titoli di capitale sono pari al 21,4% del totale mentre le quote di Oicr al 15,8% del totale. I depositi si attestano al 5%; gli investimenti immobiliari, in forma diretta e indiretta, si attestano all’1,8% del totale.
Nell’insieme, il valore degli investimenti dei fondi pensione nell’economia italiana (titoli di Stato, titoli emessi da soggetti residenti in Italia e immobili) è di 36,6 miliardi di euro, pari al 19,4% del totale a fronte del 20,8% del 2022 (35,5 miliardi di euro). Di tanto in tanto emergono appetiti dirigistici, nel senso di trovare strumenti per orientare a finalità nazionali queste risorse. E’ una tentazione da evitare se si vuole salvaguardare il settore e le pensioni di scorta.
La sfida con il Tfr in azienda
Il Tfr è la principale fonte di finanziamento della posizione contributiva, ma la parte principale del Tfr di volta in volta maturando resta a disposizione dell’azienda. Itinerari previdenziali ha dimostrato come questa opzione sia meno conveniente per il lavoratore anche a fronte della rivalutazione ope legis non prevista in caso di destinazione ad una forma di previdenza privata. Scrive Leo Campagna che i vantaggi di aderire a un fondo pensione sono molteplici, in particolare in ambito fiscale. Per i lavoratori che hanno scelto la destinazione del Tfr nel fondo pensione di categoria si configura innanzitutto la possibilità di dedurre i contributi volontari con un risparmio in funzione della fascia di reddito. Ma c’è anche di più. Scegliere il fondo pensione invece che lasciare il Tfr presso l’azienda dà la possibilità al lavoratore di accedere a un altro possibile plus: il versamento alla forma pensionistica complementare del contributo datoriale, non dovuto invece al dipendente che opta per il Tfr in azienda.
A questo proposito, è illuminante l’esempio che ogni anno viene riportato nel bilancio di Fonchim, il fondo pensione per i lavoratori del settore chimico e farmaceutico, riguardante il confronto fra il primo iscritto e il suo ipotetico gemello che ha deciso di non iscriversi. Il comparto utilizzato è Stabilità, quello con la maggior anzianità di esercizio e di gran lunga il più rilevante in termini di risorse gestite, quindi particolarmente significativo. Ebbene, l’esempio mostra come, in un’ottica di lungo periodo, l’investimento del fondo pensione sia sinora riuscito ad assolvere il suo compito istituzionale di accrescere il capitale degli associati in vista della pensione.
In particolare, dal 14 marzo 1997 al 31 dicembre 2023, a parità di contributo dell’aderente (19.473 euro), a Tfr (89.736 euro) e contributo volontario (20.942 euro), nel caso del lavoratore che ha scelto il Comparto Stabilità, si è aggiunto anche il contributo dell’azienda (34.181 euro). Il rendimento è di 55.186 euro per il lavoratore aderente contro i 26.996 euro del gemello che non ha aderito al fondo. Complessivamente, l’iscritto al comparto Stabilità avrebbe maturato 219.518 euro, cioè quasi il 40% in più rispetto ai 157.147 euro del lavoratore non aderente.