In un sondaggio pubblicato da Reuters pochi giorni dopo ferragosto Obama vantava un significativo vantaggio su Romney. Ma si trattava di un sondaggio particolare, condotto solo tra imprenditori e CEOs di grandi aziende, sia negli Usa che all’estero.
Il presidente in carica era stato preferito dal 42,7% dei votanti, mentre Romney venne scelto dal 20,5%. Il resto (un 36,8% sempre più importante, via via che ci si avvicina alle urne), si dichiarava indifferente. Ma depurando i risultati dai partecipanti esteri, risultava che i tycoon residenti negli States nutrivano una leggera preferenza per il candidato repubblicano. Un’asimmetria non di poco conto, che oggi viene confermata dal lieve ma perdurante vantaggio di Romney nella media dei sondaggi di Real Clear Politics: il rampante repubblicano da diversi giorni si è assestato intorno al 47% delle preferenze e vanta uno “spread” nei confronti di Obama di circa un punto percentuale.
Non molto, anche se la costanza del risultato fa preoccupare – e non poco – l’inquilino della Casa Bianca. Quanto al management americano, tuttavia, le aspettative sono molto eterogenee. E’ vero, trader e CEOs sperano mediamente in una vittoria di Romney, non tanto per la politica economica propagandata – che presenta più opacità che certezze – quanto per debellare il rischio di aumenti fiscali che, se Obama venisse rieletto, graverebbero sulle tasche degli abbienti.
E poi c’è il fiscal cliff, una combinazione di tagli alla spesa e aumenti fiscali che scatterà dal primo gennaio per ridurre il deficit federale. Un mix che rischia di danneggiare, e non poco, anche i redditi d’impresa. Nell’agosto 2011, a fronte dell’accordo tra progressisti e conservatori per rialzare il limite all’indebitamento, venne creata una commissione bipartisan che aveva il ruolo di trovare una combinazione ottimale di tagli alla spesa e aumenti fiscali mirati, per risanare i conti pubblici.
In assenza di un accordo sarebbe scattata automaticamente la tagliola automatica, che avrebbe messo nel mirino sia capitoli di spesa cari ai Repubblicani (come la difesa) che ai Democratici (istruzione e sanità). La situazione, oggi, è che a poche settimane dalle elezioni non c’è nessun accordo sul tavolo, e la possibilità che la commissione lo tiri fuori dal cilindro nelle prossime settimane è sempre più ridotta. Il fiscal cliff, quindi, rappresenta un rischio molto concreto, e i tagli alla spesa (militare e sanitaria) terrorizzano le lobby che occupano i rispettivi campi.
E’ vero, il prossimo presidente potrà comunque metter mano agli accordi del 2011, ma è scontato che in tal caso il colore politico del prossimo “comandante” decidera’ anche da che parte si taglierà. Obama e Romney, su questo, sono stati già chiari: il primo ridurrebbe drasticamente la spesa militare, il secondo i sussidi pubblici alle polizze sanitarie (che ne hanno ridotto il prezzo) e l’obbligatorietà erga omnes di acquistarne una (inizialmente sospesa ma poi avallata dalla Corte Suprema).
Ovviamente le lobby si stanno già preparando, e se in questi giorni il “Frankenstorm” terrà a casa trader di Wall Street e CEOs della costa orientale, ognuno di loro rifletterà molto sui possibili esiti della consultazione elettorale. Produttori di armi e fornitori di esercito e marina intrecceranno le dita, ma chi ha più da preoccuparsi saranno i tycoon delle assicurazioni sanitarie. Il problema è che Romney tutto farebbe fuorchè eliminare l’obbligo, da parte delle mutue private, di coprire le spese mediche a pazienti afflitti dalle famigerate “condizioni preesistenti“, quelle malattie (nemmeno troppo rare) che precludevano le cure e facevano lievitare i profitti delle compagnie.
Queste ultime, tutto sommato, con la riforma sanitaria hanno fatto un buon affare: ora sono obbligate a curare tutti i sottoscrittori, ma tutti gli americani devono acquistare una polizza, per di più i sussidi statali hanno foraggiato la possibile riduzione degli utili derivante dal nuovo assetto normativo.
Se vincesse Romney, in nome dell’ideologia libertaria veicolata dal Tea Party, sia i sussidi alle mutue che l’obbligo di acquistare la polizza verrebbero stracciati. Ma sarebbe troppo impopolare – perfino per gli elettori repubblicani – che saltasse l’obbligo di assistere i malati afflitti dalle “preexisting conditions”. Romney ha già ammesso che in materia sarebbe disposto a trattare: un modo per dire che questa parte della riforma non verrebbe violata. E le assicurazioni tremano: si ritroverebbero, di punto in bianco, senza sussidi pubblici e con un mercato ridotto, ma con costi interni accresciuti dall’impossibilità di “scaricare” i pazienti afflitti da patologie pregresse. Una nemesi per chi, in passato, ha negato cure essenziali. Ma anche un danno non da poco per tante famiglie, che dovrebbero pagare premi maggiorati.