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Presidenziali Usa, c’è un terzo candidato: è Robert F. Kennedy Jr., figlio d’arte ma con posizioni “eccentriche”

Wikimedia commons Di Gage Skidmore from Surprise, AZ, United States of America - Robert F. Kennedy, Jr., CC BY-SA 2.0,

Questa settimana con il professor Stefano Luconi, docente Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova, vogliamo parlare della tradizione di candidature indipendenti nella storia delle elezioni presidenziali americane.

Spesso queste frequenti candidature sono passate alquanto inosservate nell’opinione pubblica mondiale. Nelle elezioni di novembre, però, il candidato indipendente che ha annunciato la propria volontà di correre per la Casa Bianca non è un emerito sconosciuto per la comunità internazionale. 

Tutt’altro, il nome che porta è quello di una delle dinastie politiche più note, forse la più nota, degli Stati Uniti. Si tratta di Robert F. Kennedy Jr., figlio del Robert assassinato a Los Angeles nel giugno del 1968 durante la campagna delle primarie democratiche. Probabilmente si avviava a vincerle per poi trovarsi di fronte lo stesso candidato, Richard Nixon, che il fratello John aveva incontrato e battuto di misura nelle elezioni dell’8 novembre 1960.

Abbiamo chiesto al professor Luconi un breve resoconto sul significato e sull’esito delle principali candidature indipendenti ed esperienze di terzi partiti nella storia americana.

Il sistema politico americano non è un sistema limpidamente bipartitico e la corsa alla Casa bianca un duello a due come nei film di Sergio Leone?

“Siamo soliti pensare al sistema politico statunitense nei termini di un bipartitismo incentrato sulla contrapposizione tra democratici e repubblicani dall’ormai lontano 1856. In realtà, non è così. Soprattutto le elezioni per la Casa Bianca vedono un pullulare di candidati indipendenti e aspiranti presidenti che rappresentano partiti minori. Ce lo ricorda quest’anno Robert F. Kennedy Jr., balzato agli onori delle cronache anche sui media italiani soprattutto per il peso del suo cognome. Nipote del presidente John F. Kennedy e terzogenito del senatore Robert F. Kennedy, dopo aver ipotizzato di sfidare Joe Biden per la nomination democratica, ha preferito eludere le primarie per scendere in campo direttamente a novembre come indipendente”.

Ma Kennedy Jr. non è stato certo il primo a intrudursi tra i candidati ufficiali dei due partiti, vero?

“Kennedy Jr. è soltanto la punta di un iceberg. Nel 2016, oltre a Donald Trump e Hillary Clinton erano stati 28 i candidati alla presidenza. Quattro anni fa, furono addirittura 36, compresi Biden e Trump. In alcuni casi si è trattato di candidature a dir poco eccentriche”. 

In che senso eccentriche?

“Per esempio, nel 2016, Rod Silva, il titolare di una catena di ristoranti, si presentò alla testa del partito nutrizionista, con un programma incentrato su misure per fronteggiare i disturbi di salute causati da una cattiva alimentazione, ottenendo appena 751 voti popolari. Nel 2020, il rapper e produttore discografico Kanye West, già sostenitore di Trump, si inventò una propria formazione politica, il Birthday Party, fautore di una vaga “cultura della vita”, con cui conseguì poco più di 66.000 voti”.

C’è qualcosa oltre queste figure alla Wes Anderson, che non mancano mai in qualsiasi elezione che si rispetti?

“Persone e partiti meno bizzarri sono riusciti a conquistare un seguito apprezzabile e duraturo nel tempo. In particolare, il partito libertario – sorto nel 1971 per ridurre le funzioni del governo federale, tagliare le imposte, cancellare le poche forme di regolamentazione dell’economia statunitense e ampliare le libertà civili – ricevette quasi 2 milioni di voti nel 2020 e più di 4 milioni nel 2016”.

C’è barriera istituzionale alla candidatura a correre per essere eletto Presidente degli Stati Uniti?

“Certo. Il problema maggiore per i candidati indipendenti e i partiti minori è quello di soddisfare i requisiti minimi per essere inseriti sulla scheda elettorale. Oltre al pagamento di una tassa di registrazione, occorre depositare in ciascuno Stato un numero di firme in appoggio alla candidatura pari a una percentuale, che varia a seconda delle diverse disposizioni statali, dei voti validi espressi nelle elezioni precedenti, talvolta con soglie minime da raggiungere nelle singole contee. Questa procedura comporta disporre di una struttura organizzativa presente in modo capillare nei 50 Stati dell’Unione e risulta particolarmente onerosa. È stata giustificata dalla Corte Suprema per evitare candidature “frivole e fraudolente”, ma in realtà è stata voluta da democratici e repubblicani per limitare le sfide al loro oligopolio sulla vita politica”. 

È una barriera piuttosto cospicua.

“Lo è. Nel 1992, l’imprenditore texano Ross Perot figurò come candidato indipendente in tutti gli Stati grazie ai milioni di dollari della sua cospicua fortuna (stimata in $3,3 miliardi, circa $5,9 miliardi odierni) che riversò nella raccolta delle firme. Ma i piccoli partiti non hanno generalmente queste risorse e, pertanto, riescono a presentarsi solo in pochi Stati, pregiudicandosi in partenza le possibilità di vittoria. Per esempio, tra i 36 candidati alla Casa Bianca del 2020, appena tre (Biden, Trump e Jo Jorgensen del partito libertario) erano presenti sulla scheda elettorale in tutti gli Stati e nel distretto di Columbia”.

Ci sono ulteriori ostacoli per gli aspiranti indipendenti?

“Il sistema maggioritario per l’assegnazione dei grandi elettori su base statale è un altro ostacolo significativo che limita in maniera considerevole la capacità di competere degli indipendenti e dei terzi partiti. Nel 1992 Perot, pur avendo ricevuto il 18,9% del voto popolare a livello nazionale, si piazzò sempre al secondo o al terzo posto nei singoli Stati, dopo il democratico Bill Clinton e il repubblicano George H.W. Bush, e quindi non conquistò nessun grande elettore”. 

C’è stato un qualche forza indipendente che ha avuto un risultato apprezzabile a livello nazionale?

“I terzi partiti di maggior successo dopo la seconda guerra mondiale sono stati quelli che si sono resi portavoce di istanze regionali perché hanno potuto concentrare il loro seguito in Stati specifici, anziché distribuirlo in modo più o meno omogeneo in ambito nazionale, e su tali questioni hanno rappresentato un’alternativa concreta ai democratici e ai repubblicani in queste singole realtà. Lo dimostrarono soprattutto le forze politiche che furono espressione del suprematismo bianco e della volontà dell’elettorato di ascendenza europea nel Sud di mantenere in vigore la segregazione razziale nel secondo dopoguerra”. 

Ci può citare qualche caso di un candidato suprematista bianco che abbia mostrato un certo seguito:

“Nel 1948 Strom Thurmond, candidato della compagine razzista States’ Rights Party, sorta in polemica con le aperture del presidente democratico Harry S. Truman verso i diritti degli afroamericani, ricevette il 2,41% del voto popolare ma ottenne 39 voti elettorali perché conquistò la maggioranza in quattro Stati del profondo Sud (Alabama, Louisiana, Mississippi e Carolina del Sud). Invece, nello stesso anno, Henry A. Wallace – leader di un partito progressista che, in piena Guerra Fredda, proponeva la prosecuzione dell’alleanza con l’Unione Sovietica che aveva permesso di sconfiggere il nazifascismo – conseguì il 2,37% del voto popolare che, distribuito in modo uniforme in tutti gli Stati, non gli permise l’assegnazione di nessun voto elettorale”. 

Se non sbaglio in tempi più recenti c’è stato anche un altro Wallace, governatore dell’Alabama, che abbiamo visto in alcuni film e documentari sulla questione razziale.

“In linea con il risultato di Thurmond e in contrapposizione a quello di Perot, nel 1968 un altro candidato apertamente razzista forte nel Sud, George Wallace – che aveva duramente contestato il sostegno del presidente democratico Lyndon B. Johnson al conferimento della pienezza dei diritti civili e politici agli afroamericani – ricevette 46 voti elettorali pur con il 13,5% del voto popolare su scala nazionale”.

Un risultato considerevole quello di George Wallace. In molti si chiedono oggi a chi andrà a prendere voti Robert F. Kennedy Jr.

“In effetti, uno degli interrogativi degli analisti a proposito di Robert F. Kennedy Jr. è se la sua candidatura sottrarrà voti a Trump, per le sue posizioni “no vax”, o a Biden, per il suo retaggio familiare che lo collocherebbe tra i progressisti, sebbene il clan dei Kennedy si sia apertamente dissociato dalla sua campagna. Parimenti, ci si chiede se la sua candidata alla vicepresidenza – l’avvocata trentottenne Nicole Shanahan, impegnata nel campo delle nuove tecnologie – sarà capace di strappare a Biden un numero consistente di giovani elettori inclini all’uso di questi strumenti”. 

Quella di Robert F. Kennedy Jr. è allora essenzialmente una candidatura di disturbo o interpreta veramente una tendenza dell’elettorato?

“Quelle degli indipendenti e dei terzi partiti, infatti, vengono solitamente presentate come candidature di disturbo. In questa prospettiva, Perot rese possibile l’elezione di Clinton nel 1992 con appena il 43% del voto popolare perché, con le sue posizioni conservatrici (pareggio del bilancio, tagli al welfare, lotta contro le droghe, nazionalismo economico), avrebbe drenato voti da Bush Sr. Allo stesso modo, nel 2000 la sconfitta del democratico Al Gore in Florida per soli 537 voti popolari e conseguentemente nel collegio elettorale fu imputata all’emorragia di ambientalisti verso il candidato del Green Party, Ralph Nader, che in Florida portò a casa oltre 97.000 voti”.

Può essere un’alternativa reale all’offerta politica dei due partiti maggiori?

“Quella del “disturbo” non è questa l’unica interpretazione possibile. Dopo otto anni di moderatismo clintoniano, che aveva avvicinato il partito democratico alle posizioni dei repubblicani, Nader portò alle urne elettori progressisti disillusi che, in assenza di un’alternativa, non sarebbero andati a votare nel 2000. La candidata nera Cynthia McKinney del Green Party nel 2008 raccolse i voti di due gruppi che non si identificavano con l’offerta politica dei due maggiori partiti e, quindi, sarebbero stati orientati altrimenti ad astenersi: alcuni afroamericani, scontenti dall’amministrazione di Bush Jr. e ancor più dall’atteggiamento post-razziale di Barack Obama nella campagna elettorale, e i pacifisti, che accusavano il candidato democratico di essersi appiattito sulle posizioni belliciste dei repubblicani per la convinzione che la “guerra al terrorismo” dovesse essere semplicemente ricalibrata con uno spostamento del terreno delle operazioni militari dall’Iraq all’Afghanistan”.

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Nella storia elettorale americana c’è stato anche il caso “anomalo” di Theodore Roosevelt.

“In questo caso, la terza forza del momento si dimostrò molto più popolare di uno dei due maggiori partiti. Nel 1912, l’ex presidente repubblicano Theodore Roosevelt, contrariato per le politiche conservatrici del suo successore alla Casa Bianca, William Howard Taft, sebbene lui stesso avesse contribuito a farlo candidare al proprio posto nel 1908, lo sfidò nella veste di leader di un neocostituito partito progressista. La vittoria nella corsa per la Casa Bianca andò al democratico Woodrow Wilson. Ma Roosevelt prevalse nettamente su Taft, raccogliendo oltre 4 milioni di voti popolari e 88 voti elettorali rispetto ai meno di 3,5 milioni di voti popolari e agli appena 8 voti elettorali andati al presidente in carica”.

Dodici anni dopo, però, il tentativo di una terza parte sfociò in un fiasco clamoroso.

“Nel 1924, alla testa di un nuovo partito progressista che chiedeva la nazionalizzazione di ferrovie e centrali idroelettriche e un inasprimento della normativa antitrust, Robert M. LaFollette cercò di strappare abbastanza Stati al democratico John W. Davis e al repubblicano Calvin Coolidge in modo che nessuno ottenesse la maggioranza nel collegio elettorale e la scelta del presidente passasse alla Camera, dove riteneva di avere possibilità di successo. Ma LaFollette vinse solo nel proprio Stato, il Wisconsin, e Coolidge fu eletto con ampio margine”. 

Nella stragrande maggioranza dei casi la presunta funzione di disturbo dei terzi candidati non ha avuto effetti importanti sull’esito delle elezioni, vero?

“È una realtà che la funzione di disturbo dei terzi partiti si è spesso rivelata illusoria. McKinney non ostacolò la vittoria di Obama nel 2008 né la presenza di un conservatore indipendente, John B. Anderson, trasformò le elezioni del 1980 in un testa a testa tra il repubblicano Ronald Reagan e il democratico Jimmy Carter, come alcuni osservatori avevano invece ipotizzato: Reagan trionfò in 44 Stati su 50”.

Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

Libri
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle

Categories: Politica