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Premiare gli azionisti o gli stakeholders? The Economist riapre la discussione

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Shareholderism

Per che deve lavorare una grande impresa? Per gli azionisti o per la comunità nella quale è inserita? Fino al primo decennio di questo secolo il dilemma non esisteva. Era stato Milton Friedman, un economista del secolo scorso secondo solo a Keynes, a dare il fondamento teorico alla missione delle imprese: creare valore per i propri azionisti e lasciar perdere il resto che sarebbe venuto di conseguenza.

Dopo 50 anni la teoria del primato degli azionisti formulata da Milton ha iniziato a vacillare con lo sviluppo della rivoluzione digitale, con la crisi finanziaria del 2007–2008, con l’aumento delle disuguaglianze e infine con qualcosa di meno controllabile, la crisi climatica.

Nello stesso mondo corporate sono iniziati a sorgere dei seri dubbi sulla sostenibilità dello schema miltoniano per la sopravvivenza stessa del capitalismo e dei suoi derivati.

Oltre le possibilità?

Un grande filosofo del secolo scorso, Martin Heidegger, aveva già visto che la tecnologia spingeva la volontà verso l’impossibile, se assecondata ciecamente. In uno scritto degli anni sessanti annotava:

«La betulla non oltrepassa mai la sua possibilità. Il popolo delle api abita dentro l’ambito della sua possibilità. Solo la volontà, che si organizza con la tecnica in ogni direzione, fa violenza alla terra e la trascina nell’esaustione, nell’usura e nella trasformazione dell’artificiale. Essa obbliga la terra ad andare oltre il cerchio della possibilità che questa ha naturalmente sviluppato, verso ciò che non è più il suo possibile, e quindi è l’impossibile»

La sensazione che lo shareholderism di Friedman spinga troppo in questa dimensione sta diffondendosi anche tra l’élite del capitalismo e sta avanzando l’idea che occorra muoversi verso un perimetro preciso, nel quale siano attivi gli interessi di molteplici soggetti.

Approdare, però, allo stakeholderism, cioè a una teoria più bilanciata tra gli interessi degli azionisti, degli stakeholders e delle comunità, sarà un cammino complesso, irto di ostacoli e forsanche pericoloso come mostra, con la consueta lucidità, il magazine e think-tank londinese, “The Economist”. Siamo lieti di proporvi in traduzione italiana le sue riflessioni contenute nella rubrica “Schumpeter”.

Walmart ha una coscienza?

“Da quando Walmart ha sviluppato una coscienza?” La domanda, posta in un titolo del “Boston Globe” dell’anno scorso, avrebbe fatto rivolgere Milton Friedman nella tomba. In un saggio sul “New York Times Magazine”, il cui 50° anniversario è caduto il 13 settembre 2020, l’economista premio Nobel ha cercato fin dal primo paragrafo di fare a brandelli l’idea che le imprese debbano avere responsabilità sociali.

Occupazione? Discriminazione? Inquinamento? Mere “parole d’ordine”, ha dichiarato. Gli uomini d’affari devono avere sì delle responsabilità. Ma la loro unica responsabilità come manager, secondo Friedman, è verso gli azionisti, i cui desideri “in generale saranno quelli di fare più soldi possibile, nel rispetto delle regole di base della società”. È difficile trovare l’apertura di un saggio economico più esplicita nell’intera letteratura economica.

È anche difficile trovare un esempio migliore di incarnazione di questi principi che Walmart. Quotata sul mercato azionario l’anno in cui è stato pubblicato l’articolo di Friedman, si è trasformata dal negozio di alimentari della città natale di Sam Walton nella “bestia di Bentonville”, con la reputazione di spremere i fornitori e tiranneggiare il personale.

L’indole predatorio dell’azionariato di Walmart

I suoi azionisti si sono comportati come pirati. Dall’inizio degli anni Settanta, il prezzo delle azioni Walmart è salito di un fattore superiore a 2.000, contro i 31 dell’indice S&P 500 delle grandi imprese.

Eppure negli ultimi anni l’azienda si è ammorbidita. Ora difende l’idea dell’energia verde e i diritti dei gay. Il riconoscimento del “Globe” è apparso poco dopo che Doug McMillon, il suo amministratore delegato, ha reagito alle sparatorie selvagge nei negozi Walmart mettendo fine alla vendita di alcune munizioni e facendo pressione sul governo per un maggiore controllo delle armi.

Quest’anno McMillon è diventato presidente della Business Roundtable, una congrega di imprenditori americani che dichiarano di voler abbandonare la dottrina di Friedman del primato degli azionisti a favore dei clienti, dei dipendenti e della comunità.

Più potere ai capi d’impresa? Siamo certi?

Nell’America divisa, dilaniata dalla disuguaglianza di genere, razza e reddito, questo “stakeholderismo” è di gran moda.

Ma c’è un pushback. Per celebrare il mezzo centenario del saggio di Friedman, l’Università di Chicago, la sua alma mater, ha tenuto un forum online presso la sua Booth School of Business nel quale i sostenitori del credo di Friedman hanno sostenuto che dare ai capi d’impresa troppa libertà d’azione può peggiorare le cose per gli stessi stakeholder, non migliorarle.

Il punto cruciale del problema, hanno sottolineato, è la estrema difficoltà a bilanciare gli interessi contrastanti dei vari stakeholder senza dare poteri eccessivi e illimitati ai dirigenti (quello che Friedman ha chiamato il tutto in uno “legislatore, esecutore e giurista”). Gli organizzatori del forum di Chicago hanno fornito alcuni dati concreti a sostegno delle loro argomentazioni.

La decisione di Walmart

Cominciamo con il bando di Walmart alla vendita di munizioni: una decisione esplosiva su una delle questioni che più dividono l’America. Walmart lo ha presentato come una semplice misura di sicurezza, ma la National Rifle Association, una lobby molto potente e diffusa, ha detto che Walmart ha assecondato le “élite anti-armi” e ha precisato che i clienti avrebbero boicottato Walmart. E in effetti alcuni l’hanno fatto.

Marcus Painter dell’Università di Saint Louis ha analizzato i dati degli smartphone per misurare il traffico pedonale prima e dopo le restrizioni. Ha scoperto che in media le visite mensili ai negozi Walmart nei distretti a forte maggioranza repubblicana sono diminuite fino al 10% rispetto ai negozi concorrenti; nelle aree fortemente democratiche sono aumentate fino al 3,4%. Inoltre, l’apparente boicottaggio repubblicano è continuato per mesi.

È possibile che la posizione di Walmart abbia contribuito a conquistare nuovi (forse più ricchi) consumatori. Potrebbe, alla fine, anche essere andata a beneficio dei profitti di Walmart e dei suoi azionisti.

Gli interessi contrastanti degli stakeholder

Ma ha anche dimostrato che, in mezzo a un corpo politico sempre più polarizzato, ciò che è buono per un gruppo di stakeholder può essere un anatema per un altro. Che si tratti di Hobby Lobby, una catena cristiana di negozi di artigianato dell’Oklahoma, che nega ai dipendenti la copertura assicurativa per gli anticoncezionali per motivi religiosi, o della Nike che appoggia la decisione di un giocatore di football americano di protestare contro la brutalità della polizia, alcuni stakeholder si opporranno sempre a ciò che viene fatto per conto di altri.

Ci sono poi altre questioni. Un azionista della General Motors, che è anche dipendente, potrebbe volere uno stipendo più alto piuttosto che lavorare per profitti più alti; un dollaro speso per il controllo dell’inquinamento potrebbe essere un dollaro in meno speso per la riqualificazione dei lavoratori. Ma soppesare i costi e i benefici per i diversi gruppi è molto difficile.

Alcuni capi sostengono di poterlo fare, desiderosi di conquistare gli elogi dell’opinione pubblica e di assecondare i politici. Ma sono amministratori insinceri, secondo Lucian Bebchuk, Kobi Kastiel e Roberto Tallarita, della Harvard Law School.

La loro analisi dei cosiddetti statuti della circoscrizione elettorale in più di 30 stati, che danno ai capi d’azienda il diritto di considerare gli interessi degli stakeholder quando si valuta la vendita della loro azienda, è indicativa.

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Ha rilevato che tra il 2000 e il 2019 i capi d’impresa non hanno negoziato alcuna restrizione alla libertà dell’acquirente di licenziare i dipendenti nel 95% delle vendite di aziende quotate in borsa a gruppi di private equity. I dirigenti hanno imbottito le tasche degli azionisti e di loro stessi.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare

Aneesh Raghunandan della London School of Economics e Shiva Rajgopal della Columbia Business School hanno sostenuto, all’inizio di quest’anno, che molte delle 183 aziende che hanno firmato la dichiarazione della Business Roundtable sugli scopi aziendali non sono riuscite ad “applicarne quei principi” nei quattro anni precedenti. Hanno effettuato violazioni ambientali e del lavoro maggiori dei colleghi e hanno speso più risorse in attività di lobbying, per esempio.

Bebchuk e altri affermano che la “speranza illusoria” dello stakeholderismo potrebbe peggiorare le cose per gli stakeholder ostacolando politiche, come la riforma fiscale, la regolamentazione antitrust e le tasse sulle emissioni di CO2, se si incoraggia il governo a dare ai dirigenti d’azienda la libertà di regolamentare le proprie attività.

Ancora primato degli azionisti

I compromessi sono una parte inevitabile del capitalismo azionario: tra investitori a breve e a lungo termine, ad esempio. Ma gli stakeholders sono più numerosi degli azionisti, il che rende più disparati e di difficile conciliazione gli interessi da equilibrare.

Inoltre, investendo in fondi legati ai valori aziendali, o influenzando direttamente i consigli di amministrazione, gli azionisti possono dimostrare che i loro obiettivi vanno oltre la massimizzazione del profitto e si estendono al più ampio benessere della società.

Gli azionisti devono mantenere il primato, come succede, ma devono essere liberi di spingere anche in altre direzioni, se lo ritengono necessario.

Da: The Economist, What is stakeholder capitalism?, 19 settembre 2020

Categories: Finanza e Mercati

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