Anche stavolta, come accade ormai spesso da anni, il premio Nobel per l’economia va a un gruppo di studiosi – Daron Açemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson – che hanno aperto nuove direttrici portando il pensiero economico a contaminazioni fortemente interdisciplinari, studiando come i sistemi economici si intersecano con aspetti politici e istituzionali, spesso adottando un approccio di natura storica. Infatti, il Nobel è conferito loro per “gli studi sulla formazione delle istituzioni e la loro influenza sulla prosperità”.
Chi sono i tre premi Nobel per l’economia
Parto da Robinson, perché lo conosco meglio, che nel 2001 venne all’Università di Bari a un convegno sullo sviluppo dei paesi dell’Europa sud-orientale con una prospettiva delle PMI per l’integrazione nell’UE, sponsorizzato dalla Banca Mondiale e dal Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale, presieduto dal compianto Fabrizio Saccomanni.
Robinson, allora a Berkeley, presentò il lavoro “Le piccole e medie imprese sono importanti per la democrazia?”, scritto con Açemoglu, che identifica tre motivi per cui le PMI favoriscono la democrazia, riducendo la probabilità di colpi di stato, la minaccia più seria per la democrazia, ove molti colpi di stato sono sostenuti dai più ricchi perché il nuovo regime limiterà la ridistribuzione fiscale. Primo, un sistema di PMI amplifica il problema dello “scroccone” (free rider) – cioè individui che beneficiano di servizi senza pagarli, accollandone i costi alla collettività –, problema di coordinamento che è invece più facile risolvere se ci sono poche grandi aziende. Secondo, in genere i regimi totalitari avvantaggiano le grandi aziende a spese delle piccole e, perciò le PMI difenderebbero la democrazia. Terzo, più PMI fanno espandere i lavoratori del settore industriale, in genere più organizzati e politicamente più attivi a difesa della democrazia.
Sebbene non figuri tra i loro contributi più noti, questo lavoro esemplifica bene l’approccio seguito dai tre economisti. In effetti, Robinson, oggi all’Università di Chicago, si definisce un economista e politologo che ha condotto ricerche influenti nel campo dello sviluppo politico ed economico e delle relazioni tra potere politico e istituzioni e prosperità.
Dal canto suo, Daron Açemoglu, al MIT di Boston, sostiene che il suo lavoro accademico copra un’ampia gamma di aree, tra cui economia politica, sviluppo economico, crescita economica, cambiamento tecnologico, disuguaglianza, economia del lavoro ed economia delle reti. Infine, Simon Johnson, anche lui al MIT, dice che i suoi contributi più recenti esplorano la storia e l’economia delle principali trasformazioni tecnologiche fino agli ultimi sviluppi nell’intelligenza artificiale.
Anche quest’anno, dunque, il Nobel è andato a economisti che distano anni luce dagli esponenti neoliberisti che venivano insigniti del premio negli anni Ottanta e Novanta. Si tratta di un segno dei tempi. Sarebbe difficile continuare a premiare chi teorizza l’efficienza del mercato mentre tornano i dazi, le politiche industriali e le guerre. Possiamo solo sperare che il Nobel ad Açemoglu, Johnson e Robinson sia, in effetti, di buon auspicio per le democrazie, le quali sembrano sotto assedio in gran parte del mondo, anche nei Paesi ricchi.