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Politica di coesione e rischi finanziari

In caso di squilibrio macroeconomico o deficit eccessivo di bilancio in uno Stato membro la commissione UE potrà sospendere il versamento dei fondi strutturali – Giovanni La Via, capo delegazione NCD-PPE: “Ecco dove finiscono le risorse ricevute ma non utilizzate dal nostro Paese”.

Politica di coesione e rischi finanziari

La riforma della politica europea di coesione economica, sociale e territoriale – approvata nel corso dell’ultima sessione plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo parallelamente al bilancio UE per il settennio 2014-2020 – contiene elementi di semplificazione, di flessibilità e soprattutto di concentrazione della spesa su un numero di obiettivi più contenuto che in passato ma ad alto valore aggiunto in termini sia economici sia sociali. Una strategia concepita (strada obbligata, si potrebbe affermare, in tempi di crisi) per poter ottenere il massimo di efficacia degli interventi di riequilibrio fra le differenti aree dell’Unione europea impiegando una quantità di risorse finanziarie più limitata rispetto al settennio che si conclude a fine mese. 

Resta il fatto comunque che l’Italia continuerà a ricevere una quota dei fondi strutturali europei, le risorse destinate a sostenere il riequilibrio economico e sociale delle aree più deboli dell’Unione. Attenzione però, poiché fra le novità che questa riforma introduce una potrebbe toccare da vicino, con altri Stati membri UE economicamente e finanziariamente poco solidi, anche l’Italia. Ed è la norma che attribuisce alla Commissione il potere di sospendere il trasferimento dei fondi strutturali europei, cioè quelli legati appunto alla politica di coesione, a quei Paesi che dovessero trovarsi in una situazione di squilibro macroeconomico o di deficit eccessivo di bilancio.

Una misura, questa, lanciata con l’obiettivo di far sì che i fondi strutturali possano contribuire a rafforzare il quadro economico e sociale del Paese al quale sono stati destinati. Misura che, per un certo verso, potrebbe essere considerata una forma di stimolo a far bene indirizzato ai destinatari degli aiuti europei. Ma anche una sorta di deterrente introdotto per scoraggiare un’utilizzazione dei fondi non coerente con gli orientamenti della politica di coesione.

Queste nuove regole, proposte dalla Commissione, hanno suscitato perplessità e critiche quando sono passate al vaglio dell’Europarlamento. Dove molti deputati hanno espresso dubbi rispetto all’opportunità e all’efficacia di una norma che, nei termini in cui è stata proposta dalla Commissione, rischia in fase di applicazione di penalizzare ulteriormente uno Stato o una Regione legittimi destinatari dell’aiuto europeo proprio in ragione di una condizione di fragilità economico-finanziaria. Gli stessi eurodeputati, poi, hanno vinto anche una battaglia lessicale sull’argomento riuscendo in sede di negoziato con il Consiglio a far trasformare l’espressione “condizionalità macroeconomica” in “misura per collegare l’efficacia dei fondi strutturali e di investimento a una buona ‘governance’ economica”.

Ed è sulla base di tutte queste considerazioni che l’Assemblea di Strasburgo è riuscita a ridimensionare la portata del carattere sanzionatorio di un meccanismo considerato controproducente. Cosi che nella stesura definitiva delle nuove norme è stato stabilito che, in caso di proposta di congelamento dei fondi strutturali nei confronti di un Paese in una situazione di squilibro macroeconomico o di deficit eccessivo di bilancio, la Commissione dovrà tener conto delle condizioni sociali ed economiche nelle quali si trova lo Stato in questione. Dovrà assicurarsi inoltre che un’eventuale sospensione sia proporzionata alla consistenza di queste condizioni. Ma non basta: l’Europarlamento infine dovrà essere coinvolto obbligatoriamente in ogni occasione in cui si aprirà una procedura per decidere se attivare o meno la sospensione degli aiuti europei nei confronti di uno Stato membro per i motivi indicati dalle nuove norme sulla coesione.

In presenza di questo nuovo quadro normativo, c’è da chiedersi se e in qual misura l’Italia rischia di finire, in tempi più o meno vicini, nella tagliola di questo meccanismo sanzionatorio. Una simile ipotesi, allo stato attuale dei fatti, non può essere esclusa. Il nostro Paese, com’è noto, viaggia sul filo del limite massimo, fissato dal patto di stabilità e crescita, del 3% del Prodotto interno lordo per il deficit di bilancio; e inoltre continua ad avere un rapporto debito/Pil troppo elevato, molto al di sopra del tetto indicato dai parametri di Maastricht e tuttora vigente. 

Le nuove norme procedurali però, con i paletti fissati dal Parlamento europeo, sembrano lasciare la porta aperta a interpretazioni differenti. Così una lettura non molto rigida potrebbe mantenere l’Italia, sempre che il processo di risanamento dei conti pubblici vada avanti, in una condizione di relativa tranquillità. Ma nessuno può escludere che a Bruxelles possa prevalere un orientamento più restrittivo; nel qual caso (auspicabilmente il meno probabile) il rischio di incorrere nella sanzione sarebbe concreto. Considerato anche che il mese scorso la Commissione europea, per la prima volta impegnata nell’esame del bilancio nazionale del prossimo anno, ha manifestato riserve sul risanamento dei nostri conti pubblici in tempi brevi.

D’altra parte l’Italia, nonostante che sia un contributore netto nei confronti dell’UE (alle cui entrate annuali partecipa con un quota di 16 miliardi, mentre ne riceve complessivamente 10,5), non si può permettere di rinunciare neppure a una parte dei fondi strutturali. Destinati principalmente allo sviluppo delle regioni economicamente più deboli del Mezzogiorno (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, e in misura inferiore ad altre regioni di quell’area) ma anche a tutto il Centro-Nord pur se in quota più contenuta.

A questo punto però non si può ignorare – come ha sottolineato la settimana scorsa in un seminario a Bruxelles Giovanni La Via, presidente della delegazione NCD nel gruppo del PPE dell’Europarlamento – che, in tema di impiego dei fondi strutturali, l’Italia ha qualche “peccato” da farsi perdonare. “Dobbiamo riconoscere che tradizionalmente il nostro Paese – ha spiegato – utilizza, sì, una quota non marginale delle risorse europee che riceve. Ma in parte solo per non perderle, invece che per investirle. E ci riesce grazie a una ‘giravolta’. Destinandole cioè a grandi progetti pluriennali che il più delle volte non riusciranno a concretarsi, e il cui ammontare viene ad aggiungersi alle spese realmente effettuate, per finire qualche anno dopo nel RAL (in francese ‘reste à liquider’, in italiano ‘resto da liquidare’), un conto che nel tempo finirà per rientrare nelle casse dell’UE”.

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