Giardini o orti urbani sui tetti, marciapiedi più larghi, piazze digitali. Ancora grattacieli, anche se lo smart working li ha in parte svuotati, mentre passeranno di moda centri commerciali e grandi supermercati. Sarà più o meno così la città del futuro post-Covid, che poi in alcune parti del mondo è già la città del presente, quella pensata ben prima della pandemia ad esempio con il modello della “città del quarto d’ora”, nella quale si possano trovare aree verdi e servizi in prossimità del proprio quartiere, muovendosi a piedi ed evitando lo stress (e l’inquinamento) di lunghi spostamenti in automobile, o su mezzi pubblici troppo affollati. Perché e come la pandemia stia accelerando questa trasformazione lo abbiamo chiesto a Stefano Capolongo, ordinario del Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito del Politecnico di Milano: “La sfida è quella di vivere in città ma con la qualità della vita che ci si aspetterebbe vivendo fuori città. No, non finiremo tutti in campagna o nei borghi, come si è detto. Anzi l’Onu ha stimato che nel 2050 il 70% della popolazione mondiale vivrà in centri urbani, contro il 56% di adesso”.
Professore, quella stima è stata però fatta prima del Covid. E’ ancora attuale?
“Secondo me sì. Abbiamo visto che appena si è usciti dai vari lockdown la gente si è riversata nelle città, come se non aspettasse altro. L’uomo ha da sempre la necessità di condividere il proprio sapere con altre persone: senza le città viene a mancare la coesione sociale, che è meccanismo fondante della società. Inoltre sappiamo che la speranza di vita nelle aree urbane è più alta, per tre motivi: c’è più capacità di generare economia, la popolazione è più istruita e c’è un maggiore accesso ai servizi, ad incominciare da quelli sanitari. Non a caso, mi permetta di aggiungere, in Grecia hanno giustamente iniziato a vaccinare gli abitanti delle isole più remote, prima delle città sulla terraferma”.
Però le città dovranno per forza cambiare volto, per adeguarsi alle nuove istanze soprattutto ambientali ma, dopo il Covid, anche legate alla salute. Il distanziamento, ad esempio, diventerà un tema progettuale?
“Sì, infatti ci saranno marciapiedi più larghi, spazi più ampi e soprattutto diventerà ancora più centrale il tema del verde urbano. Durante la pandemia i parchi hanno assunto un valore fondamentale, ad esempio sono stati utilizzati per fare attività fisica all’aperto in sicurezza, rispettando il distanziamento. In futuro diventeranno veri e propri spazi di resilienza, spazi dove organizzare ad esempio ospedali da campo come è stato fatto a New York, spazi con una funzione sociale importante, che vada al di là del tema green. Il verde migliora la qualità dell’aria ma anche il benessere psico-fisico delle persone. L’Oms ci insegna che i primi rischi per la salute derivano da fattori socio-economici e ambientali, e a differenza di quelli genetici, dei quali si occupa solo la scienza, su questi possiamo intervenire tutti, adeguando le nostre realtà urbane”.
Spazi più ampi, quindi si tornerà a un modello di sviluppo orizzontale e non più verticale? Non vedremo nuovi grattacieli?
“Il modello sarà più orizzontale, ma anche la verticalizzazione andrà avanti. A Milano ad esempio si stanno ancora progettando e costruendo grattacieli”.
Per farci altri uffici? Quelli che già ci sono si sono svuotati a causa dello smart working…
“Sì ma torneranno a riempirsi. Il lavoro da remoto non durerà nel post-Covid, ma sarà sostituito da una modalità di lavoro mista che preveda anche la presenza in ufficio in alcuni giorni della settimana. Semmai non ci sarà la necessità di costruire molti nuovi luoghi di lavoro, basteranno quelli che già ci sono o che sono in cantiere”.
Casomai è la casa che dovrà adeguarsi, visto che è diventata luogo di vita e in parte di lavoro.
“E lo sarà ancora. Con i nuovi paradigmi lavorativi, le abitazioni dovranno riconfigurarsi, sia in termini dimensionali che di gestione degli spazi. Immagino innanzitutto appartamenti più grandi: per fare ancora l’esempio di Milano, oggi oltre la metà della sua popolazione è single e sceglieva di vivere in mono o bilocali. Con lo smart working anche una persona singola o una coppia cercherà abitazioni più ampie. Inoltre passerà di moda l’open space, ma si preferiranno spazi distinti e flessibili per poter avere più privacy e isolarsi per lavorare. E poi la pandemia ha dimostrato che sono fondamentali gli spazi esterni: è stato stimato che durante il confinamento le persone che vivevano in almeno 70 mq, con uno spazio esterno fruibile e una vista piacevole, hanno sviluppato meno ansia e depressione”.
Una casa più grande piacerebbe a tutti a prescindere dal telelavoro, ma costa di più…
“Nel centro della città sì, ma qui entra in gioco un’altra grande rivoluzione che sarà accelerata dalle esigenze post-pandemiche: la città del quarto d’ora. Se ne parla da prima della pandemia soprattutto in città come Parigi e, in Italia, Milano. Il progetto di una città con servizi a portata di mano in ogni quartiere avrà come primo beneficio quello della riqualificazione delle periferie. Con una pianificazione che porti davvero servizi e infrastrutture ovunque, è possibile che i quartieri periferici diventino più interessanti per andarci a vivere, e che vi si possa trovare casa ad un prezzo più accessibile”.
Che cos’è esattamente la città del quarto d’ora e a parte la riqualificazione delle periferie, perché sarebbe così importante?
“Con la pandemia abbiamo visto che il baricentro della vita quotidiana si è spostato dal centro al quartiere. Le persone lavoravano da casa, non potevano viaggiare e fare grandi spostamenti, quindi si è riscoperta l’importanza dei servizi di prossimità: presidi sanitari, aree verdi, mezzi pubblici, supermercato, scuola, ufficio postale, etc. L’idea è di poter accedere a qualsiasi servizio in 15 minuti, magari a piedi o in bicicletta, in modo da fare anche quei 30 minuti di attività fisica che la stessa Oms suggerisce, per 5 volte a settimana, per prevenire le malattie cronico-degenerative. E qui entrano in gioco il Covid e la salute: abbiamo visto che le persone più esposte al virus erano proprio quelle con altre patologie, dovute in buona parte ad uno stile di vita troppo sedentario. La città dei 15 minuti non è altro che la città-palestra”.
A Milano è facile immaginare la fattibilità di un processo del genere, ma una città enorme e piena di problemi strutturali come Roma, può farcela?
“Milano è sicuramente più avanti ma anche Roma e tutte le altre città metropolitane possono farcela, è solo una questione di pianificazione a livello comunale. Si tratta di definire dei confini virtuali entro i quali si fa una valutazione dei servizi già presenti, e quelli invece da organizzare. Con la pandemia ad esempio si è rivalutata l’importanza di avere un supermercato, anche piccolo, sotto casa, in modo da poterci andare comodamente a piedi durante il confinamento. A Milano la catena Esselunga ha già intercettato questa istanza e per il futuro punta sempre meno sui megastore che abbiamo visto proliferare negli anni passati e sempre di più sui mini market di quartiere”.
Quindi addio centri commerciali e grandi supermercati?
“Nei centri urbani non ci saranno più, così come ci saranno molte meno macchine e dunque meno inquinamento, perché ci si muoverà più facilmente a piedi. Invece ci saranno ancora le edicole: non più come venditori di giornali, ma come punti multi-servizio nei quartieri, come già si sta vedendo a Milano. L’edicola, nella sua nuova veste, sarà un punto di riferimento della città del quarto d’ora”.
Quanto c’entra la smart city con la città post Covid e quanto saranno importanti le risorse del PNRR, anche su questo fronte?
“La smart city renderà la città non solo luogo dell’abitare e del lavorare, ma anche luogo della comunicazione, dove l’elemento architettonico si fonde con quello tecnologico e comunicativo. Grazie al 5G e alla tecnologia immagino delle piazze digitali, dove proiettare continuamente informazioni utili per la cittadinanza. Lo abbiamo visto con la pandemia, quanto è e quanto sarebbe stato importante raggiungere davvero tutti, anche gli anziani che magari non hanno internet a casa o sullo smartphone. In questo senso la città del futuro deve essere già la città del presente, per le fasce più anziane. Quanto al PNRR, i fondi verranno distribuiti sulla scorta di progetti innovativi, e questi di cui parliamo lo sono. Però quei soldi bisogna andarseli a prendere, bisogna presentare progetti convincenti. Sarà una sfida per i Comuni ma anche per gli investitori privati”.
E la sfida per il suo gruppo di studio al Politecnico di Milano, invece, quale è?
“Per noi la sfida è capire quanto un’infrastruttura, che sia un parco o una metropolitana o qualsiasi altra, possa generare salute. Ad esempio ora stiamo provando a quantificare quanto benessere si creerebbe trasformando tutti i tetti degli edifici in giardini o orti urbani, come già si faceva in città come New York ben prima della pandemia. Vogliamo capire se, come è già stato dimostrato altrove, il verde migliori non solo la qualità dell’aria ma in che modo incida ad esempio sulla speranza di vita. A Torino un altro studio sta mettendo in correlazione la differenza di aspettativa di vita tra centro e periferia, prima e dopo la realizzazione della linea metropolitana. Altri studi ancora ci confermano che i degenti di un ospedale in cui le finestre hanno la vista su un’area verde, guariscono più in fretta degli altri”.
Il tema della salute è tornato centrale “grazie” al Covid. Come andrà gestito nella città di domani?
“La pandemia ci ha confermato che il nostro sistema sanitario era diventato troppo ospedale-centrico. Serve invece una rete capillare sul territorio, con tanti centri multi-servizi magari raggiungibili, come dicevamo, in 15 minuti da casa. Questi centri dovranno sgravare gli ospedali e migliorare l’assistenza ai cittadini. Esempio: oggi un medico di base è reperibile solo in alcune ore della giornata, e spesso capita che per un “codice bianco” si vadano ad intasare i pronto soccorso. Questi centri territoriali serviranno anche ad evitare questo, oltre che a fornire assistenza e prevenzione. Me li immagino però anche come dei luoghi commerciali, con bar, librerie, sale conferenze, in modo che possano auto-finanziarsi. Il PNRR prevede la costruzione di 100 nuovi ospedali e 1.000 centri socio-sanitari sul territorio: è una scelta corretta, ma ancora una volta servono progetti convincenti”.