Il lavoro agile resisterà all’emergenza sanitaria? Assolutamente sì, anche se ridimensionandosi leggermente e mettendo a nudo alcuni problemi emersi in questi mesi e tuttora irrisolti. A tracciare una mappa dello smart working in Italia è l’omonimo Osservatorio del Politecnico di Milano, che intanto dà i numeri: durante la fase più acuta dell’emergenza lo smart working ha coinvolto il 97% delle grandi imprese, il 94% delle pubbliche amministrazioni italiane e il 58% delle Pmi, per un totale di 6,58 milioni di lavoratori agili, circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani, oltre dieci volte più dei 570mila censiti nel 2019. Nel cosiddetto New Normal, quando questo incubo sarà finito ma ci saremo ormai abituati alla convenienza del lavoro agile (che non significa telelavoro tout court ma mix di soluzioni, sotto il paradigma del “lavorare per risultati”), gli smart worker in Italia saranno ancora 5,35 milioni, di cui 1,72 milioni nelle grandi imprese, 920mila nelle PMI, 1,23 milioni nelle microimprese e 1,48 milioni nelle PA.
Per adattarsi a questa “nuova normalità” del lavoro, secondo il Politecnico di Milano il 70% delle grandi imprese aumenterà le giornate di lavoro da remoto, portandole in media da uno a 2,7 giorni alla settimana, e inoltre una su due modificherà gli spazi fisici. Nelle PA saranno introdotti progetti di smart working (48%), aumenteranno le persone coinvolte nei progetti (72%) e si lavorerà da remoto in media 1,4 giorni alla settimana (47%), rispetto alla giornata media attuale. Ma tutto questo è davvero così comodo ed efficace? Non proprio, e il problema non è stato e non sarà solo l’impreparazione tecnologica soprattutto delle Pmi, la metà delle quali non ha nemmeno potuto operare da remoto, per mancanza di strumenti, e ha dovuto sospendere le attività. Anche le grandi aziende comunque hanno patito questo aspetto: il 69% di queste ha dovuto aumentare la disponibilità di pc portatili e altri strumenti hardware e addirittura 3/4 delle amministrazioni pubbliche hanno incoraggiato i dipendenti a usare i dispositivi personali, a causa delle limitazioni di spesa e dell’arretratezza tecnologica.
Ma un altro grosso tema, spesso sottovalutato, è quello della cosiddetta worklife balance, ovvero della difficoltà a separare il tempo del lavoro e quello privato, che riguarda quasi uno smart worker su tre. Il 29%, secondo il Politecnico di Milano, ha avuto e ha difficoltà nello “sperimentare una sensazione di isolamento nei confronti dell’organizzazione nel suo insieme”. Il complicato work-life balance è stata anche la prima barriera da superare per le grandi imprese (58%), seguita dalla disparità del carico di lavoro fra alcuni lavoratori meno impegnati e altri sovraccaricati (40%), dall’impreparazione dei manager a gestire il lavoro da remoto (33%) e dalle limitate competenze digitali del personale (31%). Nelle PA, invece, le difficoltà maggiori hanno riguardato la disparità nel carico di lavoro (39%), poi l’equilibrio fra vita privata e professionale (33%) e le scarse competenze digitali (31%).
Ma nonostante queste forzature e difficoltà, le imprese e i lavoratori riconoscono anche evidenti benefici. La grande maggioranza degli smart worker infatti rileva un effetto positivo del lavoro da remoto sulle performance dell’organizzazione: il 73% ritiene buona o ottima la propria concentrazione nelle attività lavorative, per il 76% è aumentata l’efficacia, per il 72% l’efficienza e per il 65% ha portato innovazione nel lavoro. Nelle grandi imprese sono migliorate le digital skills dei dipendenti (71%), sono stati accantonati pregiudizi sul lavoro agile (65%), ripensati i processi aziendali (59%) ed è aumentata la consapevolezza sulla capacità di resilienza della propria organizzazione (60%). Nelle PA il beneficio più evidente è l’opportunità di sperimentare nuovi strumenti digitali (56%), seguita dal miglioramento delle competenze digitali dei lavoratori (53%), e dal ripensamento dei processi aziendali (42%).
“L’emergenza Covid-19 – ha commentato Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working – ha accelerato una trasformazione del modello di organizzazione del lavoro che in tempi normali avrebbe richiesto anni, dimostrando che lo smart working può riguardare una platea potenzialmente molto ampia di lavoratori, a patto di digitalizzare i processi e dotare il personale di strumenti e competenze adeguate. Ora è necessario ripensare il lavoro per non disperdere l’esperienza di questi mesi e per passare al vero e proprio smart working, che deve prevedere maggiore flessibilità e autonomia nella scelta di luogo e orario di lavoro, elementi fondamentali a spingere una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Bisogna mettere al centro le persone con le loro esigenze, i loro talenti e singolarità, strutturando piani di formazione, coinvolgimento e welfare che aiutino le persone ad esprimere al meglio il proprio potenziale”.