Parli con lui, e da grande affabulatore, ti avvolge con una spirale di suadenti parole, semplici e appassionate, ma pesanti come un palazzo per i loro contenuti, e ti senti portato fuori dal presente, e ti rimanda col pensiero a Henry David Thoreau il grande filosofo americano che si ritirò sulle rive del lago Walden, nel Massachussets, in una capanna fra i boschi, costruita con le sue mani, perché – sosteneva – nel contatto con la natura, lontani dalla corsa frenetica al benessere materiale, si vive più felicemente e più vicini alla verità.
La verità di Pino Cuttaia, lo chef che è riuscito nel miracolo di inserire la cittadina di Licata, un po’ fuorimano, per la verità, con il suo ristorante “La Madia”, due stelle Michelin, in quella linea rossa che congiunge i cammini gastronomici di prestigio nazionale e internazionale, si lega a questa terra come la radice di una quercia secolare. Nei suoi racconti e quindi nella sua cucina si mescolano filosofia di vita, antichi costumi, vecchie tradizioni, gesti, sapori, sensazioni, memorie, che lui riesce ad amalgamare in una sintesi armonica che si proietta in una concezione della cucina che guarda al nuovo sorprendendoti come un illusionista con i suoi effetti.
Se fosse una sinfonia, si attaglierebbe bene al suo personaggio “Poeta e contadino”che il celebre compositore austriaco di operette Franz von Suppé, scrisse come musica di scena per rappresentazioni teatrali.
Come i piatti che Pino Cuttaia ti presenta in tavola l’ouverture ha un inizio armonioso dolce e rilassante che lentamente diventa un crescendo fino al finale glorioso e trionfale, ma sempre con un sottofondo di ammiccante ironia. Perché è sul finale che l’illusionista svela i suoi giochi e ti riporta alle origini e allora ti sorprendi nel ritrovarti imbrigliato mentre assapori una cucina di alta qualità nelle radici della sua quercia tutta siciliana.
Quei Santi come eroi…
Ma a dire la verità, la prima sorpresa, conoscendo la sua storia, è che Pino Cuttaia, da giovane, non pensava minimamente alla cucina ma alle ragioni dello spirito. Voleva farsi prete. Le vicissitudini della vita, orfano di padre a 11 anni, lo avevano fatto arrivare in un seminario, posto sicuro per quei tempi in quel di Licata. Cuttaia ci si trova bene: ”Da piccolo volevo fare il prete perché la parrocchia era l’unico posto dove tu potevi giocare. E poi andando all’oratorio, vedendo i filmati, sentendo i racconti dei religiosi rimanevamo affascinati dalle figure dei Santi, da San Domenico Savio a Don Guanella a Don Bosco, per noi erano veri e propri eroi, persone importanti ammirate per il bene che facevano”.
Ma quando un po’ più grandicello è l’ora di partire per Roma per avviarsi verso la carriera ecclesiastica è la stessa madre di Pino, la signora Carmela, rimasta vedova del marito in giovane età, a opporsi con i religiosi. “Mia madre disse una sola cosa al prete: io ho solo un figlio maschio e non voglio che diventi prete. Per carità, non aveva nulla contro i preti. Ma mia madre voleva, nel rispetto della memoria di papà, che io portassi avanti il cognome di casa, che io mi sposassi, mettessi su una famiglia. E questo per lei era più importante della vocazione. Che poi, a dirla tutta, forse io, contento di vivere in un ambiente sano, pulito, con i miei compagni, non avevo maturato fino in fondo. Ma mamma l’aveva capito prima di me”.
E così, invece del treno per Roma, il giovane Cuttaia prese un treno per Torino, dove la madre aveva trovato un lavoro da sarta. Siamo agli anni 80, il nostro cerca lavoro, serve al tavolo in qualche pizzeria. La proposta gli viene da un amico: “Mi disse se gli davo una mano a lavare i piatti in un ristorante. Gli risposi risentito: “Ma sei pazzo, la sera di capodanno?” Lui alla fine mi convinse dicendo che a mezzanotte si apriva lo champagne e siccome io non l’avevo mai bevuto accettai. E da quella volta lì non sono più uscito dalla cucina”. Galeotto fu lo champagne e questo mondo nuovo che gli si prospettava sotto gli occhi. A dire il vero non subito. Perché Cuttaia invidiando gli amici impiegati nelle fabbriche che avevano qualche soldo da spendere in divertimenti, decide di fare domanda all’Olivetti e riesce a farsi assumere.
La strada della libertà passa per una cipolla affettata
Ma la cosa non dura molto. Aveva raggiunto una relativa sicurezza ma aveva perso la libertà: ”La mia vita era in certo senso condannata, l’idea di timbrare il cartellino, di essere un numero non mi andava”. Una cipolla rossa lo fulminò all’improvviso. Nei fine settimana per arrotondare lo stipendio andava a lavorare nella cucina di un ristorante. E un giorno, mentre affettava una cipolla, la guardò come si può guardare la sfera di cristallo di un mago. Lì dentro vide prendere forma la sua libertà. Quella cipolla poteva tagliarla a fettine, a cubetti, a spicchi, poteva prendersi tutta la libertà che voleva. “E’ stata questa vocazione – notare il termine che riporta alla sua esperienza seminarista – veramente forte che mi ha fatto cambiare idea”.
Il giorno dopo era già fuori dalle mura della fabbrica per cominciare a costruire la sua strada da cuoco. “La mia famiglia non era d’accordo, la loro era una mentalità da posto fisso. Ma io dico sempre che quando uno scopre la libertà è difficile fermarlo. Certo, fu difficile far digerire a mia mamma la mia aspirazione di vita. Quando glielo comunicai, lei esclamò fra timori e delusioni “Ho perso un figlio!”.
E la si può capire: negli anni 80 il cuoco non era ancora quel personaggio pubblico che è diventato oggi, non si andava in televisione e sui giornali. Era una figura misteriosa sempre china sui fornelli, al punto che quando si andava al ristorante si conosceva il cameriere, non il cuoco che rimaneva rinchiuso in cucina, non lo si vedeva mai”.
“Una volta mi fecero una domanda: ma tu conosci un cuoco anziano? Io in paese in verità no, conoscevo un falegname anziano, un contadino anziano, un calzolaio anziano. E lui mi disse: perché muoiono giovani. Lui non seppe darmi una spiegazione ma io ci ho riflettuto sopra. Non solo non diventavano anziani ma molti non avevano neanche figli. La risposta l’ho trovata dopo, ripercorrendo tutta la mia carriera. Il cuoco non faceva vita sociale per cui non si sposava e conseguentemente non aveva figli. Un tempo i ristoranti avevano una cucina a gestione familiare mentre i cuochi lavoravano in albergo. E negli alberghi si iniziava all’alba per la preparazione delle prime colazioni, e si andava avanti fino a tarda sera, in ambienti insalubri, si riscaldava l’ambiente con i bruciatori, si stava a contatto con il calore per quattordici-sedici ore al giorno e questo creava anche problemi di riproduzione perché i cuochi diventano sterili, ecco perche non c’è il figlio del cuoco. Altri morivano per tumore ai polmoni: all’epoca non esistevano i macchinari per l’aspirazione, per cui si aspiravano i fumi dalla mattina alla sera. Non basta, molti cuochi morivano di cirrosi epatica. L’alcol era l’unica soddisfazione che avevano nella vita. Molti cuochi in cucina nella scaffalatura di bottiglie di brandy e di cognac tenevano sempre una scodellina d’acciaio di quelle usate per i crem caramel. Poi ho capito perché: non si doveva vedere se il bicchiere era pieno o era vuoto. L’alcool in cucina i cuochi – dice con amara ironia – se lo sono inventati perche dovevano bere: la sfumatura di brandy o di cognac non serviva al cibo serviva al cuoco. E in questo ricordo che io in cucina ho deciso di non utilizzare l’alcool perché l’acidità che mi serve posso ottenerla con un vegetale anziché con l’alcol. Insomma era dura”
Tutte queste cose Pino Cuttaia forse le ignorava al momento della sua scelta di vita. Ma fu irremovibile comunque nella sua determinazione anche quando informandosi meglio scoprì che la vita di uno Chef in cucina non è tutta rose e fiori. Perché in realtà la cucina gli apparve come l’unico posto in cui il suo cervello potesse spaziare oltre i limiti della fisicità di quattro mura o di un paese o di un’isola.
“Forse mia madre non aveva capito che io avevo voglia di comunicare. Una voglia che mi portavo dentro e mi premeva perché io in realtà non sono mai stato uno troppo sociale”. E quando un amico, infatti, gli disse, “Io non farei mai il tuo lavoro perché te ne stai sempre chiuso dentro queste mura, la risposta di Pino, Chef filosofo e poeta, fu: ”Vedi se tu all’interno delle tue mura scopri la libertà tu sei una persona libera, perche quello che conta è il pensiero non quello che gli altri vedono”.
Il ritorno in Sicilia con il rigore della scuola piemontese
E così la sua libertà e la passione per questo lavoro l’hanno portato a scalare tutti i gradini dell’esperienza e della conoscenza culinaria fino a diventare una delle firme più prestigiose dell’enogastronomia italiana. Una marcia forzata a tappe di apprendimento con la forza e la testardaggine di un mulo siciliano. Cuttaia non è, infatti, passato per l’ABC di un Istituito alberghiero. La sua formazione l’ha acquisita sul campo, nelle cucine di diversi e rinomati ristoranti. Soprattutto a “Il Sorriso” di Soriso (Novara) dove Angelo Valazza ex imprenditore internazionale e sua moglie Luisa, laureata in lettere, pittrice, autodidatta in cucina (così come il nostro Pino) avevano catturato ben due stelle Michelin con il loro raffinato ristorante in uno sperduto borgo piemontese, e poi a “Il Patio” a Pollone (Biella), dove Sergio Vineis stella Michelin realizzava una cucina attenta al territorio, ma aperta alla innovazione e alla solarità.
Con questo bagaglio di ‘cultura nordica’ Cuttaia decide così di tornare in Sicilia e appropriarsi del suo territorio mettendo in pratica il rigore e la precisione sul lavoro che aveva appreso nelle sue esperienze piemontesi in una cucina della memoria che doveva esprimere il calore, la passione, le materie prime e le ricette della sua infanzia siciliana. “Da questo incontro – spiega oggi – è nata la mia idea di cucina: una cucina in cui reinventare i ricordi, trasformandoli in piatti perfetti per celebrare stagioni e simboli della storia gastronomica della mia gente”.
Una cucina che ha riscosso, riconoscimenti unanimi di critica e di pubblico. Certo le soddisfazioni lo hanno ripagato ampiamente degli anni duri di gavetta: prima la stella Michelin nel 2006, poi il raddoppio nel 2009 (e da allora sempre conservata) a seguire il Premio Pommery “Piatto dell’anno” con la Nuvola di mozzarella per la Guida Ristoranti de “L’Espresso” nel 2013 poi la chiamata a cucinare per le First Lady dei grandi del mondo a Catania in occasione del G7 di Taormina nel 2017; quindi la elezione a “Cuoco dell’anno” per il “Golosario” e ancora la presidenza de Le Soste di Ulisse l’associazione che raccoglie gli chef siciliani e infine il suo Uovo di Seppia, diventato il piatto-simbolo dell’edizione 2014 di identità Golose.
E oggi alla sua “Madia” di Licata non è raro sentire parlare ai tavoli lingue dei cinque continenti al punto che Cuttaia si è dovuto attrezzare con una struttura ricettiva per i clienti che affrontano un lungo viaggio dall’Italia e dall’estero, fin nel profondo sud di Licata, per godere i piaceri della sua tavola.
Inutile chiedergli come si diventa grande cuoco. Fa testimonianza la esperienza di vita, caparbia e tenace, di studio, di sacrificio e di concentrazione. Ma gli si può chiedere che cosa è per lui un grande Chef. Ti risponde un po’ disarmandoti: “Un grande cuoco è un bravo artigiano, non è un artista. Una volta passando tra i tavoli un cliente per farmi un complimento mi disse: ma lei è l’artista che ha fatto questo piatto?”.
Sul momento rimasi imbarazzato. Allora andai a cercare sul dizionario la differenza fra l’artista e l’artigiano. Alla parola artista, sul dizionario c’è scritto: è persona che riproduce qualcosa di unico e irripetibile. Passando alla parola “artigiano” c’era già la mia sentenza: è lavoratore che riproduce qualcosa. La differenza sta tutta lì. Il cuoco è un artigiano perché riproduce qualcosa che ha pensato. Deve essere affidabile, perché il risultato del suo pensiero deve andare a tutti, la sua è un’operazione di democrazia, perché la sua cucina deve essere buona per essere apprezzata da tutti. L’artista nel momento che fa qualcosa di unico attesta una presunzione individuale”.
L’ingrediente fondamentale: la memoria in bianco e nero
Sicuramente uno degli ingredienti fondamentali della sua cucina è la memoria, la testimonianza di una Sicilia in bianco e nero con tutto il fascino e le rughe della sua storia, di luoghi e di persone. “Quando si fa una cucina artigianale a tavola possiamo avere dei risvegli di sapori dimenticati, sapori che, con la velocità con cui stiamo andando, non abbiamo più il tempo di evocare nelle nostre cucine, non c’e più la mamma o la zia o la nonna a ricordarceli. Per cui secondo me un cuoco legato alla memoria o alle radici – e qui ritorna il filosofo-poeta-contadino – può creare emozioni in più e allora la cucina non diventa solo più tua, ma è di tutti, è coinvolgente è partecipazione è scambio. Questa è la cosa bella della comunicazione che è alla base della mia visione gastronomica”.
La memoria è quella di sua mamma e di sua nonna: “Loro mi hanno educato attraverso il gesto domestico, una sorta di cura che sa di saperi antichi e non detti, alla conoscenza dell’ingrediente e dei sapori, della stagionalità fatta dall’ortolano che ti bussava a casa, di abitudini semplici: la fettina di carne quando eri malato, le polpette al sugo la domenica mattina, le scale piene degli odori del ragù che rendevano gli androni la quintessenza del desiderio e che evocavano, nel ricordo, un’idea fortissima di famiglia.
Mi hanno trasmesso la cura del particolare, la preoccupazione del benessere dell’altro. Mia nonna ad esempio non mi faceva uscire di casa se non avevo il fazzoletto di stoffa in tasca, ben riposto e ben stirato. Un vero incubo perquisitorio mi bloccava sull’uscio, per la verifica della sua presenza. Una specie di amuleto dell’affetto, l’unica protezione simbolica che la famiglia poteva offrire, a volte, contenuta in quel quadrato di stoffa. Un rimedio contro la vergogna e le figuracce verso gli estranei, un conforto per le lacrime che sarebbero potute arrivare, l’orgoglio della semplicità” .
E questo percorso di cura e di accudimento è lo stesso al quale Pino Cuttaia si attiene per arrivare a un piatto. Facendosi domande, tornando all’essenziale, togliendo il superfluo, regalando così la purezza del ricordo.
E’ la ricerca di quel momento in cui tutto è semplicemente perfetto, è quello che definisce l’effetto Wow, in cui gusto, vista, olfatto, tatto, udito si incontrano per esaltare l’esperienza del corpo e il piacere della mente.
L’effetto Wow non si può esprimere a parole. Per Cuttaia è “il sapore dell’infanzia che si sprigiona nelle papille, il colore che ravviva un ricordo sepolto, lo scricchiolio in bocca che richiama alla mente rumori della natura, è il velluto, il crespo, il vischioso, il poroso, la setosità, la consistenza che si tiene tra due dita. Se è vero che crescere significa chiedere perché significa chiedere cose che nessuno ti racconta, significa scoprire, è altrettanto vero che crescere è anche, o forse soprattutto, riscoprire. Per questo l’ingrediente principale dei miei piatti è la memoria, per questo per me la cucina è un regalo che le persone fanno a se stesse e ai loro ricordi”.
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Durante un casuale incontro sulla spiaggia omanita di Salalah sono venuta a conoscenza di questo sito.
Grazie per questa Interessante fonte di conoscenza per i tanti appassionati di enogastronomia.
Alla prossima newsletter quindi
Roberta Lotto