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Petrolio tra effetto Trump e tregua sauditi-Iran

Da “IL ROSSO E IL NERO” di ALESSANDRO FUGNOLI, strategist di Kairos – L’accordo dell’Opec è “solo di facciata” e nel mondo “il petrolio continua ad essere abbondantissimo” e il Texas “ha un potenziale superiore a quello dell’Arabia Saudita” che Trump vorrebbe scatenare con un programma energetico straordinariamente aggressivo” ma il candidato repubblicano ha solo il 38,6% di probabilità di vincere le presidenziali americane di novembre

Petrolio tra effetto Trump e tregua sauditi-Iran

L’Islam europeo è tutto sunnita. Quello balcanico lo è perché è di derivazione ottomana, quello occidentale lo è perché l’immigrazione viene da zone sunnite. Per questo non vediamo sotto i nostri occhi l’intensità del conflitto che divide il mondo sunnita da quello sciita, un conflitto endemico nella storia millenaria dell’Islam che si è riaperto in forme cruente dopo la rivoluzione iraniana del 1979.

Le bombe nelle moschee sciite in Pakistan e Afghanistan, la decennale guerra tra Iran e Iraq negli anni Ottanta, l’ingovernabilità del Libano, la guerra dell’Isis sunnita contro i governi sciiti di Iraq e Siria, l’assedio in corso ad Aleppo, la guerra in corso nello Yemen, la penetrazione sciita degli ultimi anni nel Sahel sunnita, il tentativo iraniano di sollevare le popolazioni sciite dell’Arabia orientale contro le case regnanti sunnite, prima fra tutte quella di Saud, sono tutte aspetti di un conflitto che è stato paragonato, per intensità e per molteplicità di fronti, alla guerra dei Trent’anni nell’Europa del Seicento.

La guida del mondo sunnita è contesa tra la Turchia neo-ottomana, l’Egitto che ospita le grandi università islamiche e l’Arabia Saudita, custode dei luoghi sacri e grande finanziatore dell’espansione islamica nel mondo. La guida del mondo sciita è l’Iran.

Se il petrolio è oggi a 47 dollari e non a 100 è per due motivi. Uno, ben noto, è l’esplosione del fracking americano. L’altro, meno considerato ma altrettanto importante, è il conflitto durissimo tra Arabia Saudita e Iran.

I sauditi sono 30 milioni, gli iraniani sono 80 milioni. La produzione potenziale di petrolio saudita, in compenso, è il triplo di quella iraniana, 12 milioni di barili al giorno contro 4 milioni. Il petrolio, quindi, è più importante per l’Arabia ma è più prezioso e vitale per l’Iran. Produrre al massimo per abbassarne il prezzo, come ha fatto in questi due anni l’Arabia, fa molto male ai sauditi ma ne fa ancora di più all’Iran.

Fino ad oggi i sauditi hanno fatto fronte al calo di entrate da petrolio attingendo alle riserve della casa reale (che ancora si confondono con quelle dello stato) e iniziando a indebitarsi sui mercati obbligazionari. Ora però è arrivato il momento di tagliare il bilancio, cancellare progetti, ridurre il welfare e le retribuzioni dei dipendenti pubblici. Per la casa di Saud il rischio di dovere imboccare la via dell’esilio e di passare la vita nei casinò della Costa Azzurra non viene più solo da una sollevazione delle minoranze sciite della provincia orientale ma anche, in prospettiva, da una probabile perdita di consenso nella base storica sunnita. Per questo, da qui in avanti, l’Arabia Saudita non cercherà più di tenere basso il prezzo del petrolio.

L’accordo annunciato per una riduzione della produzione Opec di 700mila barili al giorno sembra andare in questa direzione. In un mercato scettico e short, sauditi e Iran hanno dunque trovato un accordo. Per continuare a combattersi bisogna rimanere vivi.

A guardare bene, però, nessun barile reale verrà tolto dalla produzione. Il taglio annunciato è semplicemente la minore produzione stagionale che l’Arabia Saudita realizza in autunno e in inverno, quando i condizionatori restano spenti e la domanda interna di energia diminuisce. Solo un accordo di facciata, dunque, per strizzare gli short e impedire una caduta del greggio sotto i 40 dollari.

Nel mondo, del resto, il petrolio continua a essere abbondantissimo. La Russia produce sempre di più, il Caspio sta finalmente decollando, l’Iraq prosegue la sua espansione. Anche se la domanda globale di petrolio continua a crescere, l’offerta la soddisfa comodamente.

Tutto questo senza considerare quel 38,6 per cento di probabilità che Nate Silver (il migliore elaboratore di sondaggi) assegna oggi a Trump presidente. Trump ha un programma energetico straordinariamente aggressivo. Vuole rendere gli Stati Uniti totalmente indipendenti ed esportatori netti. Per questo intende deregolare il settore, autorizzare gli oleodotti bloccati, rilanciare il carbone, distrutto da Obama.

Ricordiamo che, se lo volessero, gli Stati Uniti potrebbero riversare nel mondo una quantità immensa di energia sotto forma di petrolio, gas, carbone e rinnovabili. Il solo Texas (si veda il numero di Limes in edicola, Texas Il Futuro dell’America) ha un potenziale superiore a quello dell’Arabia Saudita. Trump presidente potrebbe avviare questo processo anche senza l’approvazione del Congresso. Gli basterebbe, per farlo, rovesciare di segno la decretazione di Obama sul settore e cambiare il vertice dell’Epa, l’agenzia per l’ambiente.

Ora è vero che l’industria energetica americana è privata e quindi programmata per il profitto e non per l’espansione della produzione. È però anche vero che la politica di Trump ridurrebbe di molto i costi di produzione, permettendo alle società americane di restare profittevoli (o perfino di aumentare gli utili) anche in presenza di prezzi più bassi.

Poiché il petrolio texano ha già oggi costi di estrazione paragonabili a quelli sauditi o irakeni, l’effetto sui produttori non americani sarebbe significativo. Anche da questo punto di vista, dunque, Trump non è ancora prezzato dal mercato. Per il resto poco da segnalare. Il mondo è fermo in attesa dell’8 novembre e borse e cambi sono sempre nel loro trading range, mentre sui bond è tornata la voglia di rendimento a (quasi) tutti i costi.

Dal 9 novembre avremo però un 61.4 per cento di probabilità (Clinton) che la Fed inizi a togliere la polvere nascosta in questi mesi sotto il tappeto, metta mano ai tassi e avvii una correzione sui mercati. Avremo anche un 38.6 per cento di probabilità (Trump) che succeda molto di più e che molte cose, a partire dal dollaro, escano da quei range che oggi ci appaiono immodificabili.

La saggezza dei Padri Fondatori ha previsto un interregno di tre mesi tra il voto e l’insediamento del nuovo presidente. L’effetto Trump del 9 novembre potrebbe essere dunque simile all’effetto Brexit del 24 giugno, ovvero una brusca correzione di qualche ora seguita dalla constatazione, da parte di qualcuno che si prende la pena di aprire la finestra e gettare uno sguardo sul mondo, che tutto, là fuori, è esattamente come era il giorno prima. Per poi farsi trovare di nuovo impreparati, qualche tempo dopo, quando Brexit arriva per davvero o quando la Yellen (dovesse succedere) annuncia le sue dimissioni.

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