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Petrolio, prezzi da cardiopalma: ecco cosa sta succedendo

Photo by Sharon McCutcheon on Unsplash

Ennesimo terremoto nel mondo del petrolio. Stavolta a scuotere il mercato è stato il Qatar che ha annunciato a sorpresa la sua uscita dall’Opec dopo 58 anni di permanenza. Ma quello arrivato da Doha rappresenta solo l’ennesimo colpo di scena di un periodo alquanto turbolento per l’oro nero nel quale i prezzi hanno subito un vero e proprio tracollo, toccando i minimi dal 2008, anno della grande crisi finanziaria.

Sono infatti numerosi i fattori alla base dell’estrema volatilità che sta caratterizzando il mercato del greggio, con criticità che rischiano di perdurare anche nel 2019. Non a caso, Goldman Sachs prevede che a fine 2019 il prezzo del Brent si aggiri intorno a quota 65 dollari al barile, in lieve rialzo rispetto ai livelli odierni (61,5 dollari). In questo contesto cresce l’attesa per il 6 dicembre, giorno in cui i paesi Opec, insieme alla Russia, potrebbero stabilire un taglio alla produzione.

IL QATAR LASCIA L’OPEC

Il Qatar ha deciso di ritirare i suoi membri dall’Opec a partire da gennaio 2019″. Questo l’annuncio del ministro dell’Energia del Paese, Saad al-Kaabi, durante una conferenza stampa organizzata a Doha. “Il Qatar – ha proseguito al-Kaabi – continuerà a produrre petrolio ma si concentrerà sulla produzione di gas, per cui è il più grande esportatore di gas naturale liquefatto al mondo”.

L’Organizzazione dei Paesi Produttori di Petrolio dal mese prossimo perderà dunque un pezzo, scendendo da 15 a 14 membri. Una scelta, quella del Qatar, ufficialmente dettata dalla volontà di dedicarsi allo sviluppo del gas naturale – la cui produzione salirà da 77 milioni di tonnellate per anno a 110 milioni nei prossimi anni – ma che ufficiosamente sembra legata doppio filo allo scontro aperto con gli altri Paesi Arabi.

Intendiamoci, attualmente il Paese produce “solo” 600 mila barili di petrolio al giorno, il 2% del totale dei Paesi Opec, quindi la sua decisione di lasciare l’Organizzazione non avrà grosse ripercussioni sul mercato. Dal punto di vista politico però, la musica cambia radicalmente. Sia perché l’abbandono di Doha riporta sotto i riflettori le numerose difficoltà interne all’Opec, minandone ancora una volta l’unità, sia perché pare difficile non legare questa scelta allo scontro frontale in atto con l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e Egitto, che nel giugno del 2018 hanno imposto un embargo commerciale sul Qatar, accusandolo di sostenere il terrorismo. Non a caso, secondo il Financial Times, l’annuncio del ministro dell’Energia al-Kaabi un peggioramento dei rapporti tra i paesi Arabi.

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IL PREZZO DEL PETROLIO SI IMPENNA

Dopo un mese da incubo il petrolio rialza la testa, con il Brent che supera i 61,5 dollari al barile (+3,5%) e il Wti che sale a 52,8 dollari al barile (+3,6%).

A causare il mini rally del greggio non è tanto la novità arrivata dal Qatar, quanto i venti di “pace” provenienti dal Sud America, dove Stati Uniti e Cina sembrano aver finalmente trovato un punto d’incontro. Dopo il G20 di Buenos Aires infatti, gli Usa hanno proposto una tregua di 90 giorni sull’aumento delle tariffe che sarebbe dovuto scattare su 200 miliardi di dollari di importazioni. Pechino, da parte sua, si è detta disposta a ridurre le accise sulle auto statunitensi, impegnandosi anche ad importare prodotti agricoli americani. Per la prima volta dopo mesi di guerra commerciale, i due fronti sembrano dunque disposti ad abbassare, seppur momentaneamente, le armi.

Il meeting argentino però sembra essere stato “propizio” anche per un altro duo. In base ai rumors, durante il G20, il presidente russo, Vladimir Putin e il principe saudita, Mohammed Bin Salman, avrebbero trovato un accordo in vista dell’importante riunione Opec del prossimo 6 dicembre (a cui sarà presente anche al Russia pur non facendo parte del cartello). Nel dettaglio, gli analisti si aspettano che giovedì venga stabilito un taglio di 1-1,4 milioni di barili al giorno rispetto ai livelli di ottobre, livelli che rappresentano i massimi dal dicembre del 2016.

Ricordiamo infatti che nel mese di novembre, la produzione russa ha toccato quota 11,37 milioni di barili, dopo gli 11,41 milioni (record dal periodo post-sovietico) segnati ad ottobre, e anche in Arabia Saudita e negli Usa i rubinetti sono stati aperti ai massimi da decenni.

IL NOVEMBRE DA INCUBO DEL PETROLIO

Con il vertice in programma giovedì i Paesi produttori cercheranno dunque di imprime una svolta significativa dopo i due mesi da incubo vissuti dal settore. Novembre infatti è stato il peggiore degli ultimi 10 anni con i prezzi dell’olio europeo e statunitense in caduta verticale. Il Brent è collassato sotto quota 60 dollari al barile – dopo il picco di 86 dollari toccato a inizio ottobre – mentre il Wti è sceso a 50 dollari al barile dagli oltre 76 dollari del 3 ottobre.Tenendo in considerazione solo l’ultimo mese, in termini percentuali, entrambi gli indici hanno bruciato il 22% del loro valore, realizzando il peggior calo dal 2008.

Alla base del crollo delle quotazioni, non solo il peggioramento delle prospettive di crescita mondiale e la preoccupazione sulla guerra dei dazi, ma soprattutto le sanzioni degli Stati Uniti contro l’Iran scattate lo scorso 5 novembre. Da quel momento in poi infatti i tre maggiori produttori (Usa, Russia e Arabia Saudita) hanno incrementato in maniera vertiginosa la loro produzione, inondando il mercato a fronte di una domanda rimasta sostanzialmente stabile. Il tutto, nonostante gli esoneri concessi dagli Stati Uniti a otto Paesi importatori, tra cui l’Italia. Riad e Mosca sembrano ora intenzionate a correggere il titolo, Trump permettendo, anche perché, secondo gli analisti, nel caso in cui le aspettative del mercato su un taglio alla produzione venissero nuovamente deluse, i rialzi di oggi potrebbero rappresentare solo l’ultimo colpo di coda prima di un ulteriore tracrollo.

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Categories: Finanza e Mercati

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