Ben venga Omicron. Almeno per i signori del petrolio. L’ultima variante del virus offre ai membri dell’Opec un buon pretesto per rinviare l’aumento di produzione (400 mila barili al giorno) già previsto per la fine dell’anno. E così, in coincidenza con l’avvio del vertice tra i membri del cartello che precede la riunione dell’Opec + (Russia compresa) di giovedì, i mercati del petrolio registrano oggi un rimbalzo del 4 per cento che non farà piacere a Joe Biden convinto, non a torto, che per ora il prezzo della benzina rappresenta un’ipoteca sull’orientamento elettorale degli Americani. Ma anche il presidente dovrà convenire che i rialzi odierni (Brent a 72 dollari abbondanti, il Wti del Texas poco sotto i 70 dollari) compensano solo in parte i cali di novembre (-16/20 % per le due qualità), il mese peggiore dal marzo 2020, l’anno zero della pandemia.
La discesa dei prezzi, infatti, dipende in minima parte dall’effetto Glasgow sui consumi di idrocarburi o altre energie ad alto tasso di inquinamento. Anzi. Con vari pretesti, diversi Paesi (Cina in testa) hanno rilanciato l’estrazione del carbone. Ma la paura di una brusca frenata della ripresa ha provocato una vera e propria voragine dei prezzi: venerdì scorso le quotazioni sono scese del 10 per cento, di fronte alla prospettiva di nuovi lockdown. Reazione senz’altro eccessiva ma in questi casi vale la regola: “prima vendi, poi chiedi il perché”.
E così oggi il mercato sembra pronto a recepire un rimbalzo, eppur di breve durata. Sui prezzi incombe comunque la spada di Damocle dei tagli alla produzione da parte degli Stati Uniti e dei Paesi alleati (Giappone in testa) per 66 milioni di barili. Ma il cartello guidato dall’Arabia Saudita ha facile gioco ad opporre alle richieste Usa le previsioni, che parlano di una calo della domanda per gennaio e febbraio, ma anche le difficoltà tecniche che frenano la produzione dei Paesi produttori. Insomma, anche se non è escluso un gesto di buona volontà da parte di Mohammed Bin Salman (e di Putin) è probabile che gli incontri tra i produttori di oggi e domani si chiudano con un secco no alle richieste Usa.
E’ quel che pensano gli operatori finanziari che oggi stano premiando i titoli energetici, anche se il rally di Eni (oltre i 12 euro +3,4%) dipende solo in parte dall’andamento del greggio, come conferma l’analisi che Berenberg dedica alla major italiana. Per il broker due sono i motivi di appeal del gruppo promosso a buy (target 14 euro) da hold: il varo di Plenitude, cioè il business retail e rinnovabili che comprende gas e luce, il business delle rinnovabili e quello della ricarica dei veicoli elettrici; il processo di valorizzazione di Var Energy, la controllata norvegese, che potrebbe sfociare in un’Ipo miliardaria. Non è solo il Cane a sei zampe a promettere soddisfazioni: anche Royal Dutch Shell e Total Energies godono del favore degli investitori, attratti dall’alto dividendo. Ma l’orizzonte dell’energia è troppo ricco di incognite per fare previsioni a lungo. Anche se è giusto provarci.
Secondo i dati riportati nel Med & Italian Energy Report del centro studi Srm (Intesa Sanpaolo), entro il 2050 l’88% del mix elettrico dell’Europa verrà garantito dalle rinnovabili. Ma una transizione profonda così come promessa a Glasgow, si legge su Le Monde, farà sì che nel Medio Oriente il 61% del gas ed il 38% delle riserve petrolifere resterà sottoterra. Possibile, purché nel frattempo s’imponga un nuovo modello di vita per quella parte del pianeta che campa di export di energia .