Lo shale oil americano resiste meglio del previsto all’offensiva dell’Arabia Saudita. La sovrapproduzione imposta da Riyadh ai Paesi membri dell’Opec, per il momento, non sta dando i frutti sperati e nel Paese di Re Salman crescono i dubbi sull’efficacia di questa strategia. L’obiettivo era abbattere i prezzi del barile per conquistare quote di mercato a livello globale, rendendo anti-economica l’estrazione di greggio da parte dei Paesi concorrenti.
Il primo obiettivo nel mirino dell’Arabia era il petrolio da scisto (o shale oil) degli Stati Uniti, ovvero il greggio ricavato su suolo americano con la tecnica della fratturazione idraulica (o fracking).
Eppure, malgrado le quotazioni del Wti come del Brent siano crollate a poco più di 30 dollari, i fallimenti delle società Usa che producono petrolio da scisto sono stati molto meno di quanto avevano previsto inizialmente molti esperti del settore.
Non solo: in diversi casi la soglia di resistenza sarebbe ancora lontana. Secondo uno studio pubblicato da alcuni analisti, in almeno 10 contee del Texas i giacimenti di shale oil potrebbero continuare a guadagnare anche con prezzi inferiori ai 30 dollari.
In particolare, nella contea di De Witt, dove si producono circa 100mila barili al mese, il punto di break even sotto il quale l’estrazione comincerebbe a essere anti-economica sarebbe addirittura a quota 22,50 dollari al barile. Nella contea di Reeves, invece, l’asticella si fermerebbe a 23 dollari, mentre i siti di Ward continuerebbero a produrre utili fino a un prezzo di 25 dollari al barile.
Quanto all’intero panorama americano, praticamente tutti i produttori Usa guadagnerebbero con il petrolio sopra i 60 dollari, ma la risalita delle quotazioni verso questa soglia non arriverà a breve. Al momento, la fase ribassista continua.