Un tweet di Donald Trump mette freno all’ascesa del petrolio. Il presidente Usa, tramite il suo social network preferito, ha annunciato di aver parlato con il re saudita Salman, ricevendo rassicurazioni sul fatto che Riad innalzarà la produzione del greggio allo scopo di compensare la diminuzione della produzione da parte di Iran e Venezuela.
La cavalcata della scorsa settimana sembra momentaneamente essersi arrestata: i contratti sul Wti con consegna ad agosto scendono oggi a 73,69 dollari al barile, in ribasso dell0 0,62%. Giù anche il Brent, assestatosi a 78,31 dollari al barile (-1,16%) dopo aver quasi sfiorato gli 80 dollari nelle sedute precedenti.
“Ho appena parlato con il re saudita Salman e gli ho chiesto che, a causa delle turbolenze e delle disfunzioni in Iran e Venezuela, l’Arabia Saudita aumenti la produzione di petrolio, almeno fino a due milioni di barili al giorno, per compensare la differenza…i prezzi sono troppo alti! Lui è d’accordo”.
Parole che, come prevedibile hanno causato uno scossone nel mercato, tanto più se si tiene conto che il vertice Opec tenutosi il 22 giugno a Vienna ha stabilito l’innalzamento dell’output, dando il via libera ad aumenti per solo 1 milione di barili. Un aumento che però non sembra essere stato sufficiente, spingendo il prezzo del petrolio ai massimi dal novembre 2014. Il Wti, in particolare, ha superato quota 74 dollari al barile, salendo dell’8 per cento in una sola settimana.
Gli investitori temono a questo punto che i tre maggiori Paesi produttori di petrolio al mondo, vale a dire Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita, raggiungano un accordo che preveda un ulteriore innalzamento della produzione allo scopo di abbattere il prezzo dell’oro nero, a discapito di altri produttori come Iran e Venezuela che dipendono molto di più da questa fonte.
Da sottolineare che, nello stesso contesto, la Libia ha pianificato la chiusura di altri due porti da cui esporta il greggio: da lunedì chiusi anche gli imbarchi di Zouetina e al-Hariga a Est del Paese dopo lo stop dei terminal di al-Sedra e Ras Lanouf. Questa ulteriore chiusura farà perdere 850 mila barili di greggio.
Sulla questione è intervenuto oggi, 2 luglio, anche l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, secondo cui con il previsto aumento della produzione da parte dei Paesi Opec e non, il prezzo del barile si potrà stabilizzare attorno a 65-70 dollari, un livello considerato adeguato, perché aumenti troppo significativi potrebbero scoraggiare i consumi: “Secondo me – ha dichiarato Descalzi – 70 dollari è un po’ sopra il prezzo che può andare bene sia per il produttore sia per il consumatore. E’ chiaro che chi investe deve avere un’idea della continuità del prezzo”, ha detto, sottolineando che “in questo momento la previsione è per una crescita, ma non è detto, perché dipende da quanto Arabia Saudita e la Russia riusciranno a giocare sulla spare capacity (ovvero le scorte)”.
“E’ chiaro – ha continuato il numero uno di Eni – che se riuscissero a rispettare il milione di barili in più al giorno che hanno promesso (l’aumento previsto in base all’ultimo accordo Opec sul rialzo della produzione), che poi è stato portato a 600.000 barili, il prezzo potrebbe stabilizzarsi attorno a 65-70 dollari, se questo non verrà fatto, vorrà dire che ci sarà una stabilizzazione un pochino più alta, che può essere di 75-80 dollari”. Descalzi ha sottolineato infine che “il prezzo alto spaventa anche chi produce, perché fa cadere i consumi e fa entrare in una condizione di sovracapacità. Ora gli stock sono abbastanza bilanciati, anzi si è andati sotto la media degli ultimi cinque anni, quindi ogni stimolo geopolitico crea immediatamente delle crescite del prezzo, e di stimoli geopolitici ce ne sono tanti”.