L’Italia è in serie C nella classifica dell’innovazione. Secondo la graduatoria stilata dalla Commissione europea nel suo Regional Innovation Scoreboard 2012, il nostro Paese si piazza solo al 15esimo posto fra i 27 membri dell’Ue. Siamo in terza categoria, quella ad “innovazione moderata”, vale a dire sotto la media. Sul podio, lontanissime, ci sono Svezia, Danimarca e Germania. Al nostro stesso livello Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Ungheria, Grecia, Malta, Slovacchia e Polonia. Chiudono la classifica Lettonia, Bulgaria e Lituania.
Nel dettaglio, nessuna Regione italiana ottiene la valutazione più elevata (innovation leader), ma le regioni del Nord (esclusa la Liguria) si piazzano tutte nella seconda migliore categoria, assieme al Lazio. Sono considerate “innovation follower”, ossia aree che riescono a tenere il passo. Le altre Regioni sono invece a innovazione moderata, salvo la Calabria e il Molise, che finiscono nella categoria più bassa, quella delle aree in ritardo.
Come siamo arrivati fin qui? Cosa possiamo fare per risalire? Lo abbiamo chiesto a Daniele Archibugi, dirigente del Centro nazionale di Ricerca (Cnr) e Professore di Innovation all’Università di Londra, Birkbeck College.
FIRSTonline – Com’è l’andamento dell’innovazione del nostro Paese negli ultimi anni?
Gli indicatori sull’innovazione sono strutturali e a differenza di altri hanno una varianza annuale non particolarmente significativa. Per questa ragione quando si scende sotto la media diventa molto più difficile risalire e il dramma è che da molti anni c’è una progressiva, lenta e apparentemente irreversibile discesa del nostro Paese.
FIRSTonline – Quando è iniziato il calo?
Penso che sia iniziato nei primi anni Novanta. A determinarlo sono stati due fattori fondamentali. In primo luogo, nel settore pubblico abbiamo assistito a una progressiva riduzione delle risorse per le università e gli istituti di ricerca, il che ovviamente non ha creato condizioni favorevoli all’innovazione.
FIRSTonline – E nel settore privato?
Un secondo ordine di problemi riguarda proprio il settore privato, a cui è associato lo smantellamento delle imprese a partecipazione statale, che erano più protette sul mercato e quindi potevano mantenere una certa quota d’investimenti nell’innovazione. Quando sono state privatizzate, queste imprese hanno cercato di ridurre i costi in ogni settore, ovviamente anche in quello dell’innovazione.
Il combinato composto di questi due fattori ha fatto sì che l’Italia non fosse più vista come Paese attraente per gli investimenti.
FIRSTonline – Qualche esempio di settori in cui abbiamo perso terreno?
Un esempio su tutti è quello del settore farmaceutico: un tempo avevamo una buona capacità tecnologica, che si è progressivamente ridotta con l’acquisizione delle nostre aziende da parte di imprese estere, che hanno inevitabilmente ridotto la quota d’investimenti in ricerca e sviluppo Italia. Lo stesso discorso vale anche per la chimica o per le macchine per ufficio.
FIRSTonline – C’è margine di miglioramento nei prossimi anni?
Allo stato attuale non si vede alcun margine. Basti pensare a quello che sta succedendo con gli investimenti sulle risorse umane, con i nostri giovani costretti a scappare all’estero. Quello che si è innescato è un trend di lungo corso e per invertirne l’andamento oggi avremmo bisogno di un intervento radicale, deciso e soprattutto di lungo periodo.
FIRSTonline – Quanto incide nel confronto internazionale il fatto che il nostro tessuto industriale sia composto prevalentemente da piccole e medie imprese?
Non è un argomento decisivo, perché in altri Paesi le piccole imprese sono diventate grandi proprio grazie agli investimenti in ricerca e sviluppo e in innovazione. Pensiamo a Microsoft: non è nata grande, è diventata grande proprio mentre in Italia imprese nello stesso settore iniziavano la propria discesa per l’incapacità di passare dalle macchine per ufficio meccaniche a quelle elettroniche, e dall’hardware al software. Ma pensiamo anche a Facebook e Google: sono nate piccole, ma poi sono cresciute perché hanno introdotto innovazione, e questo è stato possibile in un Paese in cui le condizioni istituzionali glielo consentivano. Poi c’è il caso della Nokia in Finlandia, che non si occupava nemmeno di elettronica, ma a un certo punto è entrata nel settore e ne è diventata leader. Grazie anche al sostegno del governo, delle Università e delle strutture finanziarie del paese.
FIRSTonline – Cosa si potrebbe fare per rilanciare l’Innovazione in Italia?
Bisognerebbe rifare tutto “l’abito”. A cominciare dall’educazione, che deve essere competitiva sia al livello delle scuole superiori sia a quello delle università. E’ fondamentale creare personale qualificato che sappia fare il proprio lavoro. In Italia, nonostante tutto, siamo ancora capaci di formare queste persone, tanto che ogni anno subiamo una emorragia di personale formato in Italia e che va a lavorare all’estero, ad alimentare una “legione straniera” che fa scintille in altri Paesi.
Il secondo livello dovrebbe essere fornire opportunità ai più capaci, noi invece offriamo contratti precari a 1.000 euro al mese e quando finalmente qualcuno viene assunto, è spesso il porta-borse più fedele, non quello più capace. E’ chiaro che poi in Italia rimane solo chi non ha la possibilità di andare altrove.
Infine bisognerebbe intervenire a favore delle imprese, dando loro la possibilità di entrare nel mercato e avere successo. Questo accade ancora in alcuni settori come la moda e altre specializzazioni del “Made in Italy”, per nostra fortuna, ma non succede nei settori a più alto contenuto di conoscenza, che richiedono interventi di sistema più elevati. In questi settori, la collaborazione fra università e imprese e fra le imprese stesse è cruciale per il successo.
Da questo punto di vista, il nostro Paese è il deserto dei tartari. E’ davvero difficile immaginare che il nuovo Facebook possa nascere in Italia.