La crisi dell’Europa continua al punto da preoccupare persino Washington e Pechino. Per capire meglio che cosa sta succedendo è opportuno distinguere i tre meccanismi che si sono messi in moto e che si alimentano l’un l’altro. Il primo meccanismo è quello del contagio sovrano, con la crisi del debito pubblico che, nel 2010, passava dalla Grecia al Portogallo, all’Irlanda e alla Spagna e, a partire dall’escalation del luglio 2011, ha coinvolto anche l’Italia. Ciò si è tradotto in livelli dei tassi di interesse elevatisi di vari punti percentuali rispetto alla condizione pre-crisi, rischiando di trasformarsi in profezie che si autoavvalorano: se, temendo che il debitore non sia in grado di ripagare, gli alziamo stabilmente il tasso di interesse che deve pagare rischiamo di rendere insolvente anche un debitore che non lo era. Pur con andamenti alterni, questo meccanismo è vivo e vegeto e non si vede come toglierlo di mezzo se non con provvedimenti di federalizzazione (almeno parziale) al livello di Eurozona del debito dei singoli sovrani sotto attacco, il che, a sua volta, postula scelte politiche coraggiose.
Il secondo meccanismo si mette in moto perché le tensioni del debito sovrano si riverberano sul sistema bancario. A prescindere dalle sue qualità intrinseche (cioè i suoi attributi in termini di capitalizzazione, modello di business, efficienza e redditività) il sistema bancario di ciascun paese non può pagare i fondi che raccoglie a condizioni più vantaggiose di quelle a cui li raccoglie il proprio sovrano. Perciò, il perdurare del contagio sovrano sta progressivamente mettendo fuori gioco i sistemi bancari dei paesi in crisi da debito pubblico. Ci sono stati poi due provvedimenti che hanno agito su questo cortocircuito sovrano-banche. Da un lato, il provvedimento con cui, a ottobre 2011, si imponeva alle banche europee di valutare ai valori di mercato i titoli di stato da esse detenuti (e, al contempo, di innalzare la propria capitalizzazione in tempi brevi). Dall’altro, lo LTRO – l’azione con cui la BCE ha concesso oltre 1000 miliardi di euro di liquidità a 3 anni al tasso dell’1% – e le altre misure con cui la BCE si muove a fornire provvista di liquidità pressoché illimitata alle banche. Il primo provvedimento ha peggiorato il cortocircuito; il secondo ha teso a disinnescarlo. Come Draghi ha ricordato a più riprese, c’è però un limite a questa azione di supplenza da parte della BCE. Mentre sarebbe impensabile, come ho già scritto altre volte, immaginare che il sistema bancario di un paese restasse illeso all’eventuale default del proprio sovrano, finché il sovrano è soltanto sotto tensione è pensabile di isolare i sistemi bancari nazionali dal cortocircuito. Due provvedimenti che aiuterebbero sono la ricapitalizzazione delle banche dei paesi in crisi attraverso il Fondo salva stati e la messa in opera di un’assicurazione dei depositi a livello di Eurozona.
Il terzo meccanismo entra in funzione quando le tensioni del sistema bancario si ripercuotono su famiglie e imprese. Indebolito dall’operare del secondo meccanismo, il sistema bancario non può continuare a funzionare come se niente fosse e deve mettere in atto azioni di rientro del credito e/o di mancata concessione di nuovi crediti. Aggiungendosi a una situazione di fiducia già negativa, la rarefazione del credito contribuisce perciò a peggiorare la recessione nell’economia reale. Cade la domanda per consumi e investimenti e si riduce anche la domanda di importazioni.
Che questo sia il punto in cui ci troviamo ce lo confermano le rampogne che provengono da Washington – con Obama preoccupato della propria rielezione se l’economia USA non riparte creando posti di lavoro entro l’estate – e da Pechino, dove la decelerazione della crescita economica potrebbe porre problemi di stabilità sociale.
Che cosa si può fare? Le ricette sono chiare da tempo e più si aspetta peggio è. Dal lato dell’Europa ci serve “Cuor di leone”: occorre fare il salto in avanti verso forme di unione politica che stabiliscano impegni solidali, credibili, suscettibili di dar luogo ad azioni di sostegno rapide e di dimensioni potenzialmente illimitate. Solo così si potrà vincere la speculazione internazionale contro l’Eurozona. Perché, come ci ha autorevolmente ricordato il Governatore Ignazio Visco, l’Eurozona è un’area equilibrata “più di altre aree avanzate del mondo” (leggasi: Giappone e USA) e i suoi fondamentali economici “buoni” sono messi alla mercé della speculazione solo dalla debolezza dei suoi fondamentali politici.
Ma i fondamentali politici “buoni” potrebbero avere tempi di gestazione più lunghi di quelli che la situazione attuale ci consente. Non si può ignorare che se il progetto europeo venisse affossato dall’accanimento della speculazione internazionale – un accanimento orbo che guarda solo al debito pubblico e dimentica quello privato – il risultato sarebbe dannoso per tutti, non solo per gli europei. E, allora, forse serve che qualcosa si muova anche dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Non basta sottolineare – come hanno fatto giustamente Draghi e Fabius – che la crisi è partita dagli USA, sarebbe il caso di ricordare al Presidente Obama che, così come si verificò nel 1933, anche oggi l’America ha bisogno di ri-regolamentare la finanza. Allora, grazie all’azione decisa dell’indimenticato procuratore Ferdinand Pecora – emigrato a New York dalla provincia di Enna – fu possibile mettere a nudo in un mese le pratiche disinvolte, quando non irregolari, di alcuni finanzieri che erano state all’origine del Grande Crollo del 1929 con grave danno per i risparmiatori e i mercati. Lo sdegno dell’opinione pubblica e la determinazione dell’Amministrazione di Franklin Delano Roosevelt portarono all’emanazione del Glass Steagall Act e degli altri provvedimenti di regolamentazione che consentirono al mondo occidentale di chiudere la nefasta fase dell’instabilità finanziaria. E Lei, Presidente Obama, mentre chiede giustamente ai leader europei di essere all’altezza della situazione, perché non prova anche a far rivivere all’America “un mese da Pecora”?