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Per Pisapia Milano ha in mente Profumo

Se vince a Milano, il candidato del centro-sinistra ascolterà Marco Vitale e suggerirà Profumo per l’Expo – L’altro nodo, il futuro di Edison – Intanto in Borsa occhi puntati su Intesa (in attesa di vedere cosa decideranno a Deauville) – Ecco come Lia, socio di Unicredit, ha perso la bellezza di 3 miliardi in derivati

Per Pisapia Milano ha in mente Profumo

Tra i vari motivi di imbarazzo che separano il premier Silvio Berlusconi dal suo ministro Giulio Tremonti,  c’è, non ultimo, il fatto che  il più autorevole consigliere in materia  economica di Giuliano Pisapia altri non è che il professor Marco Vitale.  Ovvero proprio l’uomo cui il ministro dell’Economia ha affidato la guida di quella che, per ora, resta la creatura di cui va più orgoglioso: il Fondo italiano per gli investimenti nelle piccole e medie imprese, attivato da Abi, Confindustra e Cdp sotto gli auspici di Tremonti. Vitale, che ha alle spalle un’esperienza di governo a palazzo Marino nella giunta Formentini, ha idee ben chiare e, al solito, non le nasconde.  Anzi, ha già lanciato i suoi consigli via “L’Espresso”. La nuova giunta, a suo dire, dovrebbe “vendere Edison. Trasformare l’inquinatissima azienda dell’Ortomercato in società consortile affidata ai migliori operatori del settore. Liquidare o vendere l’Autostrada Serravalle. Giusto quotare la Sea”. Un terremoto, dunque, ma di difficile realizzazione proprio per l’ostilità del ministro alla vendita, quasi inevitabile, di Edison alla francese Edf. Ma la questione resta calda: il governo di Milano, in questa fase delicata di sviluppo  che tra Pgt (Piano generale del Territorio), Expo ed investimenti collegati, partita dell’energia e dintorni, è troppo importante per lascarla in mano ai politici.  Pisapia, pero’, ha nel cassetto un piano meno devastante ma ancor più ambizioso: riunire tutte le partecipate sotto il cappello di una holding che abbia compiti di controllo e di indirizzo strategico. E ha già individuato l’uomo giusto, con un prestigio sufficiente per rimettere in moto la macchina degli investimenti (compreso l’Expo) c’è: Alessandro Profumo. Non sarà facile strappare la sua adesione, ma Pisapia è abituato ad imprese assai più difficili.

BANCHE, DIETRO LA RIPRESA C’E’ LA CARTA DI PECHINO

Forse è solo una pausa nella tempesta, ma ci voleva. Il rimbalzo dei titoli e dei diritti di Banca Intesa, che procedono in perfetta sintonia, è servito a rimettere sui giusti binari la macchina di un aumento di capitale che sembrava inceppato fin alla partenza. Situazione che si stava complicano non poco. Ma il ragionamento vale per l’intero comparto, a partire da Ubi, Mps e Bpm, cioè le banche che presto dovranno affrontare a loro volta l’esame di un aumento di capitale in un congiuntura obiettivamente difficile. Ma quanto difficile? Fino a che punto è solida l’inversione di tendenza dopo una settimana di forti vendite? Oppure, dopo la pausa, riprenderà la tempesta, alimentata dai venti che soffiano dalla Grecia?

Una risposta sarà possibile solo dopo il vertice di Deauville, che riunirà nel week end i vertici del G8. In ballo c’è il via libera alla nomina di Christine Lagarde ai vertici del Fondo Monetario, al posto del priapesco Dominique Strauss-Kahn. Ma, in realtà, la posta in palio nella città del casinò, dove André Citroen si gioco’ in una notte la sua fortuna (e perse), è molto più alta: la Cina, per l’occasione ambasciatrice per conto dei Brics e delle tigri d’Asia, chiederà all’Occidente di ridiscutere gli equilibri di potere alla luce della nuova distribuzione della ricchezza. Non ha senso che, al giorno d’oggi, l’India abbia in sede Fmi lo stesso peso dell’Olanda. Ma, in realtà, Pechino chiede all’Europa contropartite più immediate. Come ha rivelato ieri Klaus Regling, il direttore del Efsf, il fondo europeo che si accinge ad entrare in azione in Portogallo. Assieme ai cinesi, perché Regling ha ieri rivelato che i finanzieri di Pechino si sono impegnati ad operare “forti acquisti” delle emissioni dell’Efsf che dovranno fornire i 78 miliardi di prestiti a Lisbona. Insomma, Pechino chiede il permesso per metter piede (anzi, entrambi i piedi) nell’economia europea. A partire dai periferici. L’offerta è assai delicata, dal punto di vista politico. Ma l’annuncio ha contribuito a restituire equilibrio al comparto dei titoli bancari europei, le principali vittime della turbolenza sul debito sovrano. La semplice promessa dell’arrivo dei capitali di Pechino in Europa ha contribuito a mettere in fuga l’Orso. Almeno fino a domenica, quando si deciderà la sorte di Grecia, Irlanda e Portogallo, un tris che vale solo il 6 per cento del Pil della Ue ma, come ha ricordato ieri Mario Draghi, può far ripiombare nella recessione l’intera Comunità.

COSì LIA, SOCIO DI UNICREDIT PERSE 3 MILIARDI IN DERIVATI
Il fondo sovrano libico Lia, primo azionista (oggi congelato) di Unicredit ha perduto in speculazioni legate ai derivati circa 3 miliardi e mezzo di euro di euro. In una sola singola operazione il Lia ( patrimonio complessivo di 53 miliardi di dollari) ha accusato una perdita del 98% del capitale investito. E’ quanto riferisce il Financial Times citando il Global Witness, un’organizzazione non organizzativa che ha potuto ricostruire alcuni affari della Libian Authority, uno dei due veicoli attraverso cui è diventato azionista prima di Capitalia, poi della banca di Piazza Cordusio. Nel caso dei derivati, però, Lia ha operato con diversi hedge fund legati alla Societé Générale mentre altre posizioni chiamano in causa Credit Suisse, JP Morgan e Bnp Paribas. Ma non Unicredit che ieri ha ricevuto una buona notizia dal fronte della controllata  Bank of Austria: l’agenzia di rating Fitch ha ritoccato verso l’alto il rating individuale sull’istituto portandolo a C dall’iniziale C/D, premiando la “buona performance della banca in un contesto difficile, in particolare nell’Europa dell’Est”.
TREASURY BOND, DOMANDA RECORD
Il mercato ha assorbito senza problemi l’offerta di 35 miliardi di T bond a 5 anni. Anzi, le prenotazioni hanno registrato il record assoluto dl settembre 1994: 3,5 volte l’offerta. La mega richiesta, indice del nervosismo nei confronti dell’euro, si è riflessa in un calo dei rendimenti ad un tasso di 1,813 %, contro un’offerta iniziale a 1,83. Dopo tre giorni di ribasso Wall Street risale la china. Anche grazie alla ripresa dei valori delle materie prime. Il Dow Jones ha chiuso a 12394,66 (+0,3%), in linea con l’S&P 500 (+0,3% a quota 1320,47) mentre il Nasdaq sale dello 0,6% a 2661,38. A favorire l’inversione di tendenza dopo una partenza negativa è stata la notizia che Fitch ha dichiarato di non vedere ragione per abbassare il rating delle banche tedesche in rapporto al debito greco.
Chiusura positiva anche per le piazza asiatiche. Il Nikkei 225 risale dell’1,19%. Meglio dell’Hang Seng di Hong Kong (+0,49) e di Shangai (+0,,43).
RHIAG, UNA MATRICOLA MOLTO PRIVATE
I giochi si chiudono oggi, ultimo giorno previsto per il collocamento della prima matricola di Piazza Affari del 2011 Rhiag, uno dei leader europei nella compravendita dei ricambi auto destinati ai grossisti, che a loro volta riforniscono le officine.  A garantire la rediitività del gruppo, che in Italia controlla il 17 per cento del mercato (il fatturato  nel 2010 è stato di 500,4 milioni) contribuisce la diversificazione geografica, specie sui mercati dell’Est europeo, i più promettenti per  un’azienda che opera nei servizi dedicati alle auto già in circolazione. Non mancano altre note di merito: la richiesta di ingresso nel segmento Star. Infine, le dimensioni dell’offerta che riguarda il 67 per cento del capitale. Piazza Affari, insomma, non acquista una semplice matricola, bensì si arricchisce di una società contendibile fin dl primo giorno di quotazione. Merce rara per la Borsa italiana. Ma a vendere, in questo caso, sono, dopo quattro anni di permanenza,  alcuni fondi di private equity  che hanno deciso di procedere ad un’offerta così ampia per far fronte al problema dell’indebitamento (248 milioni a fine 2010, quasi il doppio del patrimonio netto). Una strategia legittima, per carità. Ma c’è un particolare che lascia perplessi: tra i tre istituti che hanno curato il collocamento due, cioè Intesa e Mediobanca,sono anche i principali creditori. In Italia, si sa, il conflitto di interesse non è reato.
KASHAGAN, L’ETERNO TORMENTONE DI CASA ENI
Non corrono tempi lieti per Goldman Sachs, nel mirino della Procura di New York e protagonista, senz’altro non positivo, di “Too big to fail”, il film sul crack di Lehman Brothers in programmazione a Manhattan da lunedì scorso, opera dello stesso regista di L.A. Confidential. . Ma i listini continuano a rispondere, obbedienti, alle indicazioni della Dark lady dei mercati. E così, dopo un mese di ribassi anticipati da un report di GS, i prezzi del greggio hanno ripreso a salire, in sintonia con il report della banca d’affari che ha fissato un target price di 130 dollari per il 2011. Ieri, nonostante l’aumento a sorpresa delle scorte di greggio e di benzina, le quotazioni del petrolio Wti sono tornate oltre quota 101,5 dollari. Il rimbalzo non ha però interessato il titolo Eni, in lieve flessione (-0, 5%) dopo aver staccato la cedola il giorno prima. A frenare la corsa del cane a sei zampe ci si è messa l’eterna “grana” di Kashagan, l’immenso giacimento nel Kazahkstan che per or, è stata più fonte di preoccupazione che di profitti, L’ultima novità riguarda il braccio di ferro tra la Shell, che ha preso il posto dell’Eni come leader del consorzio, ed il governo di Astana. Quest’ultimo si rifiuta  di approvare i tagli proposti da Shell per l progetto di sviluppo (da 68a 50 miliardi). Per tutta risposta la compagnia anglo-olandese ha preannunciato la chiusura degli uffici da cui dirige le operazioni per lo sviluppo dell’off shore. Il rischio è che l’operazione slitti ancora nel tempo, pregiudicando fin dall’inizio le possibilità di ritorno economico dell’investimento: il contratto per il giacimento, la più grande scoperta da trent’anni a questa parte, scade nel 2037, forse troppo presto per ammortizzare i costi che hanno già superato i 136 miliardi di dollari. Insomma, un bel guaio per l’Eni, che di Kashagan controlla il 17,5 %, ma anche per Saipem che sul posto ha 2.500 dipendenti. Sulla carta, almeno, perché le crisi di questo tipo, in Kazahkstan, si ripetono almeno due volte all’anno.

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