Nel giorno in cui tutto il mondo festeggia le donne, Francesca Bettio (professore ordinario di politica economica presso l’Università di Siena e coordinatore del network europeo ENEGE – European Network of Experts on Gender Equality) risponde alle domande di FIRSTonline. “Favorire la presenza delle donne del mercato del lavoro non corrisponde solo a principi di pari opportunità – spiega l’economista – ma anche a obiettivi di efficienza economica. Vediamo insieme perché”.
FIRSTonline – Anzitutto, una panoramica del livello di occupazione femminile in Italia. Quali sono le cifre e a che punto siamo rispetto al raggiungimento degli obiettivi europei?
FRANCESCA BETTIO – La strategia di Lisbona prevedeva che, per il 2010, in Europa e possibilmente in tutti gli stati membri si raggiungesse l’obiettivo del 60% di occupazione femminile; il range anagrafico di riferimento era 15-64 anni. Noi attualmente siamo al 46,4% e nell’Europa 27 siamo terzultimi (dopo di noi, la Grecia e Malta). Dopo la strategia di Lisbona, è arrivata la strategia Europa 2020 che ha posto obiettivi fin troppo ambiziosi e, a tratti, poco chiari. La percentuale di occupazione da raggiungere è il 75% (il range anagrafico è 20-64 anni) ma l’obiettivo a cui mirare comprende sia il lavoro maschile che quello femminile. Hanno scelto una cifra globale media che può essere interpretata in diversi modi: ad esempio un paese potrebbe avvicinarsi al target fissato anche facendo aumentare solamente l’occupazione maschile. E’questa l’ambiguità.
FIRSTonline – Arriviamo, ora, alle ricerche che dimostrano il nesso causale tra l’aumento dell’occupazione feminile e l’incremento del Prodotto interno lordo. Ce lo spiega?
BETTIO – Secondo le ultime stime in merito, il raggiungimento del famoso obiettivo del 60% porterebbe meccanicamente a un aumento di Pil di 7 punti percentuali. E sono tre i fattori che dobbiamo considerare. In primo luogo il problema della misurazione: le donne che non lavorano per il mercato (e che quindi non rientrano in quel 46,4%) non stanno a casa in panciolle tutto il giorno; anche loro lavorano. Ma il frutto del loro lavoro non è quantificato e non contribuisce al Prodotto interno lordo. Ecco che, quando la donna comincia a lavorare invece per il mercato, c’è uno spostamento di lavoro da un settore in cui non è quantificato a un settore dove invece è contato. Secondo fattore: parliamo di una mancata utilizzazione di una risorsa che c’è e facciamo riferimento ad esempio all’istruzione. Ormai le donne sono più istruite degli uomini, non dico una novità. E, se una parte di loro non contribuisce all’economia del paese, le risorse che sono state impiegate e investite per la loro istruzione vanno sprecate. Infine, terzo fattore, possiamo analizzare la produttività in senso stretto. La crescita economica – la storia lo insegna – in molti casi è avvenuta perché c’è stato il passaggio di un’attività fatta in casa a un’attività fatta nel mercato. Faccio l’esempio del tessile: prima c’erano i telai a casa e le donne che cucivano; quando l’attività è stata “esportata” nel mercato, la produttività è più che aumentata e il tessile è diventato un settore industriale. Quindi il punto è che, quando le donne escono di casa e vanno a lavorare fuori, un certo tipo di occupazione si sposta dall’ambiente familiare al mercato e automaticamente aumenta la produttività. Con essa, la ricchezza.
FIRSTonline – In Italia alcune attività di cui lei parla sono rimaste, tendenzialmente, confinate nelle mura di casa. Ad esempio, i servizi di cura all’infanzia, agli anziani e ai disabili?
BETTIO – Lei ha centrato proprio il settore più critico e, allo stesso tempo, più potenzialmente produttivo. I servizi di cura non solo sono rimasti all’interno della casa ma anche sulle spalle delle donne. Un po’ per ragioni economiche, un po’ per ragioni culturali.
FIRSTonline – Quindi, seguendo il suo ragionamento, se esportassimo di più questo tipo di servizi dalla casa al mercato, crescerebbe la produttività?
BETTIO – Esatto. In particolare, la cura agli anziani è in Italia un’opportunità incredibile. Le spiego, con poche cifre, l’entità del fenomeno. Un rapporto della Comunità ha calcolato che, circa per il 2020, nell’Europa ci potrebbero essere 5 milioni di persone in più che richiedono assistenza. Per l’Italia io e una mia collega abbiamo fatto una stima, un po’ grossolana, ma coerente con le previsioni demografiche: nel nostro paese gli anziani, con almeno una disabilità, sono destinati a salire a circa 4 milioni e mezzo circa nel 2050, rispetto ai 2 milioni e 700mila stimati per il 2010. Se facciamo due conti e diciamo che, per tutti questi anziani, prevediamo un’assistenza di 10 ore alla settimana, esce la seguente stima: dal 2010 al 2050 si creerebbero 860mila posti di lavoro part time oppure circa 500mila full time. E aggiungo che basterebbero altri tre settori capaci di questo tipo di aumento occupazionale per portare, nel 2050, il tasso di occupazione femminile al 60%. Basterebbe questo.
FIRSTonline – Cosi sembra un po’ troppo facile.
BETTIO – Il problema di fondo è che in Italia dobbiamo capire che il settore dei servizi è un motore occupazionale molto rilevante. Negli Stati Uniti lo sanno bene. E, oltre ad essere rilevante, è un settore che facilmente (per sua natura) traina l’occupazione femminile. Traformiamo in opportunità le nostre debolezze e cominciamo a parlare di più di alcuni settori, come appunto quello della cura agli anziani, che devono necessariamente essere tradotti in politiche industriali.