Lettera Aperta di Massimo Angrisani, professore ordinario di Metodi Matematici dell’Economia e delle Scienze Attuariali e Finanziarie presso l’Università La Sapienza di Roma, al Presidente del Consiglio, Mario Draghi, sui rischi che il sistema pensionistico italiano dovrà affrontare nel prossimo futuro. Senza adeguate riforme, sostiene il professore, la tenuta del sistema è in pericolo.
Ch.mo prof. Mario Draghi Presidente del Consiglio dei Ministri,
Signor Presidente,
Le scrivo questa lettera aperta nella mia veste di Professore di Teoria e Tecnica Attuariale per la Previdenza per ribadire una problematica che già ebbi modo di evidenziare circa venti anni or sono1 e che ho più volte sollevato nei successivi anni senza avere alcun riscontro da parte della classe politica, classe alla quale è demandata la tutela degli interessi nazionali.
Ritengo, infatti, che ognuno deve fare la sua parte e assumere le responsabilità che la competenza e il ruolo comportano e di cui deve rispondere ora e in futuro, è per questo che scrivo.
Tale problematica riguarda la sostenibilità del sistema pensionistico italiano.
Il sistema pensionistico italiano è gestito a ripartizione, il che significa che fa fronte alla spesa corrente per il pagamento delle pensioni con i contributi correnti versati dai lavoratori. In effetti si tratta, come ho avuto modo di affermare già diversi anni or sono, di una “ripartizione assistita”, in quanto sono necessari importanti trasferimenti pubblici per fronteggiare la spesa pensionistica corrente. Tutto ciò malgrado le rassicurazioni fornite a livello istituzionale che hanno sistematicamente garantito “la chiusura dei cantieri della previdenza con conti in equilibrio”. Dall’inizio degli anni novanta sono state almeno una quindicina le chiusure definitive dei cantieri della previdenza, spesso accompagnate da elogi europei.
I conti del Sistema Pensionistico non sono attualmente in equilibrio.
Tre fattori demografici li metteranno ulteriormente in crisi minandone la sostenibilità:1) l’entrata nella fascia di età di pensionamento delle generazioni del baby boom, ovvero quelle legate al gran numero di nascite nel secondo dopo guerra, che comporterà un ulteriore aggravio della spesa pensionistica già oggi pesantemente sussidiata dai trasferimenti pubblici. La gestione pensionistica dell’onda demografica avrebbe dovuto comportare la creazione di un’adeguata riserva patrimoniale3. Sul tema si può anche trarre esempio dal caso del sistema pensionistico svedese;
2) l’allungamento della aspettativa di vita, fenomeno che può oggi segnare il passo, ma che non ha certamente esaurito i suoi effetti;
3) la pesante e tuttora persistente flessione delle nascite che si è registrata a partire dalla seconda metà degli anni 60 del secolo scorso. Tale flessione, ancora in atto e in fase di peggioramento, ha portato a un più che dimezzamento del numero dei nati attuali rispetto al numero dei nati in tali anni.
Quest’ultimo fenomeno è evidentemente correlato con la numerosità della popolazione attiva e contribuente attuale e futura. La diminuzione del numero dei nati deve essere neutralizzata mediante interventi di incentivazione della natalità, interventi che però avranno effetti operativi solo nel medio lungo periodo e quindi, con tale consapevolezza, si deve intervenire nel breve periodo con efficaci politiche di immigrazione controllata.
Alla luce di quanto appena detto sulla struttura demografica attuale e tendenziale del nostro Paese risultano di difficile comprensione le frequenti esternazioni sulla sostenibilità del sistema pensionistico italiano basate sull’assunzione per il sistema stesso dell’ipotesi di “steady state”, ovvero di stabilità economico-demografica, ipotesi che risulta del tutto irrealistica, in particolare, per quanto detto, con riferimento alla demografia del Paese.
Non vorrei che riprendesse vigore la credenza, più volte professata da “esperti previdenziali”, che il solo passaggio al sistema contributivo, realizzato mediante la Riforma del ’95, garantisca la sostenibilità del sistema pensionistico italiano.
Il passaggio al sistema di calcolo contributivo non è sufficiente per la sua sostenibilità: è bene che questo concetto risulti chiaro a tutti coloro che esprimono giudizi in merito. Un conto è la modalità di calcolo della pensione altro conto è il sistema finanziario di gestione. Certo in ambito contributivo la gestione finanziaria è fattibile in modo certo ed efficace, ma bisogna conoscere la relativa teoria5.Segnalo anche l’altra credenza piuttosto diffusa che il problema della sostenibilità abbia solo valenza economica e che cioè una forte ripresa economica possa risolvere la problematica di sostenibilità del sistema pensionistico. Senza volere entrare nel merito di una crescita economica con demografia in flessione occorre osservare che, in un sistema pensionistico di tipo contributivo gestito a ripartizione, sono sostanzialmente due i tassi che producono il rendimento complessivo di sostenibilità del sistema: il tasso di variazione del numero degli attivi e il tasso di variazione del salario medio. Se il primo è pesantemente negativo trascina in negativo anche il tasso complessivo.
Senza volere entrare nel merito attuariale della questione, considerando semplicemente un sistema pensionistico gestito a ripartizione dove il rapporto tra attivi e pensionati è pari a due, significa che una pensione si paga con i contributi di due attivi. Se il rapporto tra attivi e pensionati scende a uno, una pensione si paga con i contributi di un solo attivo e quindi, in termini di salario medio, la pensione si dimezza.
Una buona dinamica salariale dell’attivo contribuente ovviamente aiuta, ma resta il fatto che il sistema pensionistico ha disponibili i contributi di un solo attivo per pagare una pensione.
Alla luce di quanto detto pensare di ampliare la spesa pensionistica, come da più parti si paventa, avrebbe un impatto fortemente oneroso e di lungo periodo sul sistema, finendo con il gravare pesantemente sulle generazioni future le quali subiranno certamente anche i non previsti costi derivanti dall’attuale pandemia.Ritengo opportuno che prima di assumere nuove misure di allargamento della spesa sia necessaria una verifica della sostenibilità del sistema pensionistico italiano che parta dal grado di indebitamento del sistema stesso. E’ necessario, a mio avviso, calcolare con esattezza il debito del sistema pensionistico e in funzione di questo pianificare degli interventi.
Vorrei da ultimo invitarLa a considerare l’opportunità di tornare a rendere di gestione pubblica l’informazione sul Sistema Previdenziale italiano con il ripristino del Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale.
La ringrazio per l’attenzione che vorrà dedicare a questa mia lettera e Le formulo i migliori auguri per il Suo non facile Lavoro.
Massimo Angrisani
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C'è sicuramente un problema di calo demografico nel lungo periodo, ma, al netto delle voci spurie (imposte, oltre 50 mld, assistenza, TFR, attualmente pari complessivamente a 90-100 mld), il bilancio dell'INPS è in attivo da decenni e la spesa pensionistica annua cala da 250-260, dato su cui quasi tutti i docenti e gli organismi basano le loro analisi e proposte, a 150-160 mld e l’incidenza sul PIL dal 15-16% al 11-12%. Soltanto l'OCSE, nelle sue analisi e comparazioni internazionali (ma non sempre, come è successo nel suo ultimo report di settembre 2021 sull'Italia) espone i dati al lordo e al netto delle imposte (quelle italiane sono le più alte in ambito OCSE e UE).
PS: paventare significa temere.
Davvero una riflessione occorata di grande competenza. Queste le risorse del Paese da coinvolgere.