Giorgia Meloni ha litigato un’altra volta con Emmanuel Macron. In via della Scrofa minimizzano e forniscono una loro versione dei motivi dei dispetti tra ‘’cugini’’ dei quali sarebbe principale responsabile proprio il presidente francese perché non sopporterebbe il dinamismo di Meloni in Europa e soprattutto in Africa, a caccia di accordi sulle forniture di gas che trasformerebbero l’Italia nell’Hub energetico del Mediterraneo e dell’Europa.
Pensioni: Italia vs Francia
Se a ‘’io sono Giorgia’’ capitasse l’occasione per punzecchiare il suo collega d’Oltralpe (Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco!) dovrebbe intavolare con lui un discorso sulle pensioni, col pretesto che ambedue i governi hanno aperto una vertenza con i sindacati. Tuttavia, a quanto pare i guai di Macron sono molto più seri di quelli di Meloni. Ma soprattutto in questa materia tanto delicata e facilmente infiammabile l’Italia potrebbe fornire qualche insegnamento alla Francia.
Giorgia Meloni è appena arrivata e non ha nulla di cui potersi vantare personalmente. Le riforme (e le controriforme) sono opera dei governi precedenti, in prevalenza tecnici o di centrosinistra, ma con qualche riconoscimento dovuto ad alcuni esecutivi di centrodestra.
Insomma Meloni sarebbe in condizione di rispondere con un bel ‘’da noi è già stato fatto’’ a tante domande di Macron sulle misure che a sua avviso sarebbero necessarie in Francia e che gli sono duramente contestate, mediante scioperi a cadenza settimanale durante i quali si svolgono manifestazioni imponenti nelle città più importanti del Paese, tanto che vi è il timore del governo di infilarsi nuovamente nel tunnel senza via d’uscita dei gilet gialli. Pur con tutti i suoi limiti il sistema Italia finisce per fare bella figura almeno per come sono stati affrontati – nel bene come nel male – i diversi problemi.
I punti chiave della riforma delle pensioni francese
Entriamo nel merito. I punti chiave della riforma, proposti a nome del governo francese da Elisabeth Borne, sono i seguenti:
1. aumento dagli attuali 62 a 64 anni “dell’età legale” del pensionamento;
2. carattere progressivo di questo aumento (per cui si arriverà a 64 anni nel 2030);
3. aumento, sempre in forma progressiva, del numero di anni necessari ad avere la pensione piena (fino ad arrivare ai 43 anni di contributi nel 2027, anziché nel 2035 come previsto dalla legge oggi in vigore)
4. deroghe per chi esercita mansioni usuranti;
5. misure a favore della ricostruzione delle carriere (tenendo anche conto dei “lavori di utilità collettiva”);
6. aumento della pensione minima, che sarà di 1.200 euro mensili lordi per chi abbia il massimo dei contributi.
L’abolizione dei régimes spéciaux per i futuri assunti
Quanti hanno le orecchie attente a questa musica si renderanno certamente conto che si tratta di un insieme di misure ragionevoli che saranno strumentalizzate in Italia perché quelle vigenti da noi sono apparentemente più rigorose. Ma lo scoglio che nessun governo francese è riuscito a superare fino ad ora è un altro: l’abolizione – per i futuri assunti – dei régimes spéciaux (come quelli presenti nel settore dei trasporti o in altri comparti molto delicati per quanto riguarda i servizi forniti alla collettività che fruiscono di pensioni anticipate rispetto alle altre categorie). Questi regimi speciali si annidano nelle categorie dei servizi pubblici e privati indispensabili (come i trasporti e l’energia) e nel pubblico impiego.
In questi settori i sindacati sono arrivati a bloccare le attività per impedire i tentativi di riforma. Sono proprio i sindacati che non contano più nulla ad arroccarsi nei comparti dove hanno ancora un potere contrattuale in ragione dell’ essenzialità dei servizi erogati e delle ricadute degli scioperi, magari un po’ selvaggi, sui cittadini, l’economia, la sicurezza.
Le caratteristiche del sistema pensionistico francese
Dove emergono le più accanite resistenze? In Francia vi sono 42 casse e regimi specifici. La solidarietà tra le generazioni è la regola base; ovvero è previsto il classico finanziamento a ripartizione. Le tre principali sono il regime generale dei dipendenti del settore privato (80% dei pensionati), la Mutua sociale agricola (Msa) per i lavoratori agricoli e il regime delle professioni indipendenti. I regimi speciali – 11 in tutto – riguardano i pubblici dipendenti, le aziende e stabilimenti pubblici (tra cui Banca di Francia, compagnia ferroviaria Sncf, metro parigina Ratp, ecc), ma anche le professioni autonome (avvocati) oltre al fondo di solidarietà per gli anziani.
La questione dell’età pensionabile in Francia ha un’aura di sacralità. Fu infatti Francois Mitterrand, quando vinse le elezioni e portò la gauche per la prima volta al governo nella V Repubblica, a ridurre a 60 anni l’età di pensionamento, in precedenza fissata a 65 per uomini e donne. Con grande fatica i governi successivi sono riusciti a portare questo requisito a 62 anni, riuscendo però poco per volta ad elevare fino a 45 anni il requisito contributivo per ottenere il massimo della pensione. In sostanza, introducendo, sia pure indirettamente, un sistema di incentivi/disincentivi.
Oltre al regime base, i dipendenti hanno l’obbligo di versare contributi a casse dette complementari, e durante la pensione percepiranno un secondo trattamento previdenziale. Si tratta di un sistema molto complesso in quanto ogni cassa funziona in base alle proprie regole. Generalmente sono basate su sistemi a punteggi, convertiti in euro, il cui importo si somma a quello delle pensioni di base.
I numeri all’Assemblea nazionale
Già i sindacati e le sinistre sono entrate in agitazione dopo l’annuncio delle misure – graduali – che intende proporre il governo, ammesso e non concesso che vi sia nell’Assemblea nazionale una maggioranza che l’approvi. All’Assemblea nazionale la coalizione macronista ha solo la maggioranza relativa (250 deputati su 577). Le manca dunque un bel gruzzolo di voti per far passare tranquillamente il disegno di legge. I principali gruppi d’opposizione sono l’estrema destra del Rassemblement national di Marine Le Pen (88 deputati) e l’estrema sinistra della France insoumise (74) di Jean-Luc Mélenchon, decise a dare battaglia fino all’ultimo petardo polemico (una leader mélenchonista ha detto che i deputati del suo gruppo presenteranno “mille emendamenti a testa”).
Il sistema pensionistico italiano tra passato e presente
Da questo punto di vista i sindacati italiani fanno un figurone, non solo nei confronti di quelli francesi, ma anche di altri Paesi europei che stentano ad uniformare le regole. Perché da noi la battaglia per l’uniformità delle regole e non solo per i nuovi assunti l’hanno combattuta le grandi organizzazioni confederali, misurandosi con resistenze anche all’interno dei loro corpi associativi, in particolare nel pubblico impiego e nei servizi.
A metà degli anni ’90 la struttura del sistema pensionistico obbligatorio italiano consisteva in ben 47 regimi pensionistici (amministrati dagli enti previdenziali) così suddivisi:
a) il regime generale dell’Inps con le sue quattro gestioni (lavoratori dipendenti, coltivatori diretti, artigiani e commercianti). Tra queste gestioni l’assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti (Ago-Ivs) del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) è certamente la più consistente di tutti i regimi
b) I regimi sostitutivi dell’Ago-Ivs: dieci fondi di cui alcuni (autoferrotranvieri, telefonici, volo, dazieri, elettrici, clero e ministri del culto) con gestioni autonome presso l’Inps. I lavoratori dello spettacolo e assimilati erano iscritti all’Enpals, i giornalisti all’Inpgi, i dirigenti d’azienda dell’industria all’Inpdai.
c) I regimi esclusivi dell’Ago-Ivs: nove gestioni nelle quali erano collocati i dipendenti dello Stato (a carico del Tesoro), i ferrovieri, i postelegrafonici e le Casse poi unificate e amministrate dall’Inpdap (Cpdel per enti locali e personale del Servizio sanitario, Cps per medici, veterinari e ufficiali sanitari, Cpi per gli insegnati d’asilo, Cpug per gli ufficiali giudiziari e loro coadiutori).
d) I regimi esonerativi: otto gestioni relative a fondi pensionistici di banche. Tali gestioni, insieme a due regimi esclusivi, sono state trasferite ad una gestione speciale dell’Inps a seguito della trasformazione dei relativi istituti in società per azioni, nel 1991.
e) I regimi integrativi: tre gestioni presso l’Inps (minatori, gasisti, esattoriali).
f) I regimi dei professionisti: dodici gestioni (notai, avvocati e procuratori, ingegneri, architetti, ecc.).
g) Un regime assistenziale presso l’Inps che erogava la pensione sociale.
La richiesta di procedere allo sfoltimento degli enti previdenziali fu posta dalle organizzazioni sindacali all’inizio degli anni Novanta contestualmente all’uscita dei loro rappresentanti nei consigli di amministrazione degli enti stessi.
Tre istituzioni, l’Inps (per gran parte del mondo del lavoro privato), il ministero del Tesoro (per il personale dello Stato), l’Inpdap (l’Istituto dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per il personale degli enti locali, del Servizio sanitario e di altri settori minori già ricordati) da sole coprivano il 93% dei quasi 22 milioni di assicurati ed erogano il 98% dei 16 milioni di pensioni allora esistenti, a cui andavano aggiunte le altre prestazioni previdenziali e assistenziali.
Inps: l’architrave del sistema pensionistico italiano
L’Inps era già il vero architrave di tutto il sistema pensionistico; ad esso faceva capo l’87% della previdenza obbligatoria (col 62% imputabile al Fpld). L’Istituto di via Ciro il Grande era già un colosso dal punto di vista amministrativo e finanziario, il suo bilancio era secondo solo a quello dello Stato. I dati della sua attività istituzionale si riassumevano in poche cifre: 19 milioni di assicurati (85% della popolazione occupata), 1,2 milioni di aziende collegate, 14,2 milioni (pari al 10% del Pil, al 20% della spesa pubblica e al 45% della spesa per protezione sociale). Inoltre, l’Inps svolgeva il ruolo di ente collettore per conto dello Stato, curando la riscossione dei contributi per il finanziamento del servizio sanitario e delle imposte sul reddito.
L’Inps non si limitava ad erogare solo le pensioni ai lavoratori dipendenti ed autonomi, ma era titolare di altre prestazioni quali l’assegno al nucleo familiare, le indennità di malattia e di maternità, di mobilità e di disoccupazione, la cassa integrazione guadagni, le pensioni sociali, nonché di altri interventi di natura assistenziale raggruppati in un’apposita gestione.
Il Tesoro e l’Inpdap
Il Tesoro operava come soggetto erogatore delle pensioni dei dipendenti dello Stato, della scuola e delle aziende autonome per i quali non era previsto alcun bilancio previdenziale/finanziario. Le prestazioni che questi pensionati percepivano erano in pratica una rendita vitalizia, i cui oneri erano direttamente a carico del bilancio dello Stato (al pari delle retribuzioni degli attivi) il quale tratteneva solo la quota dei contributi imputabile ai dipendenti. Una Gestione pensionistica per i dipendenti dello Stato fu istituita nel quadro della Riforma Dini e inquadrata nell’Inpdap che l’anno precedente (il 1994) costituì un primo momento di aggregazione della previdenza del pubblico impiego, come sopra ricordato. L’Inpdap, infatti, incorporò oltre alle gestioni pensionistiche anche gli enti che erogavano le indennità di buonuscita nei vari comparti della PA oltre ad altre prestazioni minori (ENPAS, INADEL, ENPEDEP). Questi enti parastatali avevano una storia che veniva da lontano a dimostrazione della complessità del sistema di protezione sociale che si era stratificato nel Paese. Fino al 1978, quando fu istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), facevano parte del sistema delle Mutue, a fianco del colosso dell’INAM. Dopo il loro scioglimento – tutto si crea e nulla si distrugge – concentrarono la loro mission sull’erogazione dei trattamenti di fine servizio, funzioni che già svolgevano in precedenza sia pure in modo secondario rispetto all’assistenza malattia.
La previdenza Italiana oggi: Inps, Inail e casse private
Dopo una seria di altri processi di accorpamento oggi, dal 2012, la previdenza obbligatoria in Italia è costituita da due grandi poli pubblici: l’Inps che ha incorporato tutti gli enti erogatori di prestazioni pensionistiche, assistenziali, occupazionali, di sostegno al reddito e alla famiglia (che da ultimo ha incorporato anche l’Inpgi); l’Inail che ha incorporato tutti gli enti erogatori di prestazioni antinfortunistiche. Ma più che la dimensione dei processi organizzativi, il cui compimento è stato parecchio travagliato per tanti comprensibili motivi, l’aspetto più importante derivante dai decenni delle riforme/controriforme è stata la graduale ma crescente unificazione delle regole, nei criteri generali (del lavoro dipendente e autonomo) e nelle specifiche normative (del lavoro dipendente).
Intorno a questi due giganti, sopravvivono una ventina di casse c.d. privatizzate dei liberi professionisti. Il regime di privatizzazione (gestione autonoma di forme di previdenza obbligatoria, sotto la vigilanza del Ministro del Lavoro) degli Enti dei Liberi Professionisti è una caratteristica particolare del nostro sistema previdenziale.
L’impianto strutturale (ovvero il rapporto tra iscritti e pensioni) di queste Casse per ora è sano: il rapporto iscritti/pensioni è attestato mediamente al di sopra del parametro 3,5 a fronte dell’1,4 riguardante il sistema pensionistico complessivo.
Nel contesto attuale della previdenza obbligatoria, pertanto, il comparto dei liberi professionisti è quello che dovrebbe dare minori preoccupazioni. Ma il senso di responsabilità verso le generazioni future deve indurre gli amministratori delle Casse, in primo luogo, a far proprio il precetto evangelico della estota parati. A cogliere, cioè, le contraddizioni insite nel divenire dei processi economici ed occupazionali.
Si consideri che l’Inps, pur essendo suddiviso in circa 40 fondi e gestioni, ha un bilancio unitario che consente di utilizzare i saldi attivi di alcuni settori per compensare quelli passivi. Una soluzione analoga ovvero la costituzione di un ente unico per le casse privatizzate potrebbe essere oltre che un segno di solidarietà della categoria, anche una garanzia di sostenibilità.