X

Pensioni, il blocco dell’indicizzazione non era l’unica scelta: meglio tagliare sussidi a imprese

FIRSTonline

La recente decisione della Corte Costituzionale sul blocco biennale dell’indicizzazione delle pensioni superiori a 3 volte il minimo ha fatto molto discutere. E continuerà a farlo. Come si poteva prevedere, la sentenza è stata accolta dai pensionati con molto favore: “le pensioni non devono essere usate come un bancomat”, ossia per fare cassa quando lo Stato ha la necessità di ripianare i conti. E, peraltro, non dovrebbero, neanche fungere da ammortizzare sociale per quelle famiglie che devono mantenere i figli disoccupati. Soprattutto, in Italia, dove, per inciso, un giovane su due non trova lavoro.

La reazione del governo non si è fatta attendere. In poco meno di due settimane, si è deciso per un rimborso graduale. Non per tutti, però. I vincoli europei non lo permettono, a cominciare dal pareggio di bilancio che l’esecutivo Monti mise in Costituzione, nonostante non fosse esplicitamente richiesto dalle regole fiscali, in particolare dal Fiscal Compact. E, infatti, ad oggi, solo tre paesi hanno cambiato la Costituzione: l’Italia, la Spagna e la Slovenia (la Germania lo aveva già fatto nel 2009). 

Per ora, quindi, sembra sia stato risolto un “problema” che il premier Renzi ha definito “non creato da lui”. In effetti, quella decisione risale all’inverno del 2011, quando si insediò al governo Mario Monti. Per riportare il debito su un percorso sostenibile e ridurre coì lo spread – che aveva superato la quota di 500 punti base – il blocco dell’indicizzazione delle pensioni fu considerato inevitabile. Col senno di poi, ci si può chiedere se davvero quel taglio fosse inevitabile. Un’attenta analisi dei numeri fornititi nel Rapporto Istat sulla situazione del paese pubblicato in questi giorni, indica, in realtà, che le alternative c’erano. 

Per capirlo, basta guardare i dati della spesa pubblica nel periodo 2011-2013, per accorgersi, che essa non è diminuita. Al contrario. E’ aumentata sia in rapporto al Pil (dell’1,8 per cento), sia in termini nominali (dello 0,9 per cento). Per finanziare questo aumento, e nel contempo, ridurre il disavanzo che aveva raggiunto il 3,5 per cento del Pil, il governo ha aumentato le entrate del 2,6 in rapporto al Pil e dell’1,6 per cento in termini nominali. La pressione fiscale è così passata dal 41,6 per cento del 2011 al 43,4 per cento del 2013.

Gli alti tassi di interesse dell’epoca hanno, ovviamente, contribuito all’incremento della spesa (circa un miliardo e mezzo) ma non sono stati l’unica voce. La spesa corrente primaria è aumentata dell’1,3 per cento in termini nominali. Tra le componenti correnti, le prestazioni sociali in denaro (di cui le pensioni rappresentano circa l’ottanta per cento) sono aumentate di 15 miliardi di euro, passando da 304 miliardi a 319 miliardi nel 2013. I consumi intermedi – una delle principali voci di spesa che comprende ad esempio anche i costi sostenuti per il parco macchine -, sono aumentati di circa 3 miliardi (da 87 a 90 miliardi di euro). I contributi alla produzione, ossia i trasferimenti delle pubbliche amministrazioni a favore delle imprese, sono stati incrementati di 4 miliardi di euro, da 23,5 miliardi a 27,5 miliardi. L’unica voce di spesa che ha registrato una sostanziale diminuzione è quella in conto capitale, che è passata da 62 miliardi a 58 miliardi di euro. 

Cosa si dicono questi dati?

In primo luogo, i governi (inclusi quelli tecnici) tendono sempre a tagliare la spesa in conto capitale – forse perché gli (eventuali) effetti negativi si esplicano solo nel medio/lungo termine, periodo in cui la probabilità che il governo sia ancora in carica è assai ridotta -, salvo poi annunciare pubblicamente che bisogna aumentare gli investimenti pubblici per ridare slancio all’economia.

In secondo luogo, si sarebbe potuto intervenire su altre voci di spesa, come quella dei consumi intermedi e dei trasferimenti alle imprese, – come peraltro proponeva allora il Professor Giavazzi -, considerato che è lì che si annidano molti degli sprechi e delle inefficienze dell’utilizzo della spesa pubblica. I benefici – in termini di maggiore efficienza – sarebbero andati a tutta la collettività, mentre solo alcune imprese avrebbe dovuto fare a meno di aiuti che spesso non producono impatti positivi quantificabili. E’ chiaro, però, che intervenire in questi comparti significa andare a toccare interessi di gruppi con potere di resistenza ben maggiore di quello dei percettori di una pensione superiore a tre volte il minimo.

In sostanza, il blocco dell’indicizzazione delle pensioni era un’opzione. Non certo l’unica, però. Sicuramente, era quella più facile da implementare dal punto di vista politico. Ma, i governi tecnici (che comunque rappresentano un’anomalia della democrazia) non servono proprio a prendere misure che la politica non riesce a attuare?

Related Post
Categories: Interviste