Se qualcuno intendesse scrive una sorta di libro “Cuore” in tema di pensioni, dovrebbe dedicare un capitolo al pensionamento flessibile. Il concetto appartiene al novero delle idee politicamente corrette, che mettono a posto con la coscienza perché, sostenendole, ci si sente – come diceva Enrico Berlinguer – contemporaneamente conservatori e rivoluzionari: ci si avventura con cautela lungo il cammino impopolare dell’innalzamento dell’età pensionabile (necessità che solo le teste malate di ideologia possono negare a fronte della poderosa accelerazione dell’attesa di vita), ma nello stesso tempo si lascia intendere che, alla fin fine, resterebbe aperta un’uscita di sicurezza per chi vuole andarsene prima, magari con un piccolo taglio alla pensione, largamente compensato dalla sua riscossione anticipata.
Nell’iniziativa politica in corso, il criterio della flessibilità del pensionamento (con un requisito anagrafico minimo di 62 anni ed uno massimo di 70, ragguagliati ad un meccanismo – inadeguato a compensare i maggiori oneri – di disincentivi/incentivi, a fronte di un’anzianità contributiva di almeno 35 anni) ha trovato posto in un progetto di legge presentato, come primo firmatario, dal neo presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, a cui hanno fatto seguito progetti di altri gruppi, incluso uno, praticamente analogo, presentato dalla vice presidente della medesima Commissione, Renata Polverini (Enrico Letta aveva ragione: ci si può odiare per la “politica”, ma andare d’accordo sulle “politiche”).
Il tema della flessibilità del pensionamento – enunciato dal premier Letta nella comunicazioni sulla fiducia – è stato ripreso più volte anche dal ministro Enrico Giovannini, in articoli, interviste e risposte ad interrogazioni. Da ultimo, sul Sole24 Ore del 19 luglio, è sceso direttamente in campo il demiurgo dell’operazione, lo stesso Cesare Damiano, replicando, senza degnarci di una citazione, ad un precedente articolo critico, sul medesimo quotidiano, a firma mia e di Pietro Ichino. Chi scrive, a tempo debito, non ha esitato a misurarsi con il tema del pensionamento flessibile (peraltro assunto a regime anche dalla riforma Dini).
Appena eletto alla Camera, nella passata legislatura, presentai (AC 1299) un progetto di legge in cui era inclusa la formula magica di cui stiamo ragionando, contenuta in un range compreso tra 62 e 67 anni per poter accedere ad un pensionamento unificato di vecchiaia. Il fatto è che allora le regole consentivano di ottenere il trattamento di anzianità, con il sistema delle quote, facendo valere un’età anagrafica inferiore a 60 anni, mentre alle lavoratrici era consentito di andare in quiescenza di vecchiaia a 60 anni. Questa situazione è stata superata attraverso le misure adottate in seguito, dal governo Berlusconi prima, dalla riforma Fornero, poi.
Nei fatti, quindi, la “dottrina Damiano” finirebbe per abbassare i requisiti anagrafici e contributivi ora previsti, determinando, inevitabilmente, effetti economici negativi, stimabili prudentemente a regime in almeno una decina di miliardi. Non va dimenticato, infatti, che secondo le regole della contabilità, quando si introduce un vero e proprio diritto soggettivo al pensionamento all’interno di una fascia di età anagrafica compresa in un range di flessibilità diventa necessaria una copertura commisurata all’ipotesi che tutti i futuri pensionati si avvalgano del requisito più ridotto. Altrimenti è richiesta la fissazione di un numero massimo di possibili utenti per definire la copertura finanziaria, superato il quale non è più consentito usufruire del diritto. Una procedura questa che darebbe luogo alle consuete proteste da parte degli esclusi.
Il progetto Damiano (al pari degli altri), oltre a riportare indietro, col pretesto della flessibilità, il limite anagrafico per la prestazione di vecchiaia, reintroduce il trattamento di anzianità (sulla base, unicamente, di un requisito contributivo di 41-42 anni). Tutto ciò senza neppure risolvere in modo strutturale – come si vorrebbe – la questione dei c.d. salvaguardati. A questi soggetti, in generale, non è precluso, alla luce della riforma Fornero, l’accesso alla pensione a causa di un requisito contributivo insufficiente (quasi tutti sono in grado di fare valere più di 35 anni di versamenti), ma in conseguenza di un’età, a volte, parecchio inferiore alla soglia (assunta come minima) di 62 anni. In pratica, allora, la proposta Damiano si applicherebbe a tutti i lavoratori, “esodandi” o no, lasciando aperta la questione degli “esodati”, i quali presenteranno il conto a partire dal 2015 (essendo risolti i casi insorgenti nel 2013 e 2014). Con inevitabile ricarico dei relativi oneri. Come si può constatare, dunque, i progetti di revisione del sistema pensionistico continuano ad essere destinati, in pratica, a difendere i lavoratori anziani di oggi, non i giovani che saranno pensionati domani.