Se mi è consentito di parafrasare Samuel Johnson, considero la richiesta di separare la previdenza dall’assistenza ‘’l’ultimo rifugio della canaglia’’: quella che è pronta a fare carte false pur di opporsi a riforme del sistema pensionistico dalle quali non si può pretendere, ormai, che ne garantiscano la sostenibilità (troppa grazia!), ma che almeno ne evitino lo sfacelo. L’idea (ormai è divenuta un’ideologia) della separazione è una sorta di fenomeno carsico; riappare in superficie a comando, ogni qualvolta qualcuno preferisce lanciare la palla in tribuna anziché affrontare seriamente i problemi. Ma tra i tanti argomenti fasulli sostenuti dai ‘’separatori’’, una sfiora l’assurdo. Per un’inspiegabile tendenza al ‘’tafazzismo’’ ci faremmo male da soli. I governi sotto tutte le bandiere trasmettono a Bruxelles – secondo la leggenda della separazione – dei dati sbagliati apposta per farsi dire che la nostra spesa pensionistica è troppo elevata. Basterebbe invece separare le spesa dell’assistenza da quella della previdenza (e magari defalcando la quota di imposta sui redditi pagata dai pensionati) per rientrare nei ranghi della normalità. Invece le nostre Istituzioni trasmettono in sede europea i dati sulle pensioni in modo indistinto e cumulativo, così che la loro incidenza sul Pil risulterebbe, a loro dire erroneamente, del 16,7%.
Pensioni, da cosa deriva la gogna delle riforme
Così veniamo sottoposti alla gogna delle riforme. Se invece sottraessimo gli oneri assistenziali per maggiorazioni sociali, le integrazioni al minimo, e la Gias (Gestione per gli interventi assistenziali), pari in totale a 23,79 miliardi, l’incidenza sul Pil scenderebbe all’ 11,72%, dato in linea – scrivono – con la media Eurostat (che è del 12,6%). Se poi ci prendessimo la libertà di escludere, oltre alle integrazioni al minimo e alla Gias, anche i 59 miliardi di imposte Irpef in quanto “partita di giro” (tasse che nei Paesi dell’Unione europea e dell’area Ocse sono mediamente molto più basse), l’incidenza sul Pil scenderebbe ancora all’8,64%. Da primi diventeremmo ultimi nella graduatoria della spesa.
Pensioni, i dati anomali del nostro sistema
Il fatto è che, nella Comunità, non esiste un menù su cui ogni Stato sceglie quelle che preferisce, ma le statistiche si compilano secondo regole comuni e concordate in sede Eurostat, dove vengono definiti anche i criteri per calcolare la spesa pensionistica. Sulla base di questi criteri emergono i dati anomali del nostro sistema. In teoria, si possono adottare regole diverse, ma lo si deve fare uniformemente, assieme agli altri, non ogni Paese a sua discrezione Ma l’argomento fondamentale per smentire i ‘’separatisti’’ è un altro. Che cosa è considerata assistenza secondo la Costituzione? Leggiamo il comma 1 dell’articolo 38: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. E’ evidente che – proprio per la loro natura – le prestazioni che sono riconosciute ai cittadini in quelle condizioni sono a carico della fiscalità generale. Da noi, nel tempo, il concetto si è rovesciato: è considerata assistenza tutto ciò che viene finanziato dal bilancio dello Stato e non dalle risorse provenienti dalla contribuzione sociale. Ovvero non si guarda più alla natura della prestazione ma alla titolarità del finanziamento.
Pensioni, le conclusioni del comitato tecnico
Seguendo questa teoria finiremmo per contabilizzare come assistenza anche la spesa coperta da fiscalizzazione ora pari al 6% o al 7% a seconda dei redditi. Il ragionamento corretto, confermato dalla letteratura internazionale in materia, è un altro: la spesa pensionistica – per una serie di motivi – è finanziata in parte con la contribuzione della produzione e in parte con trasferimenti dal bilancio dello Stato, che costituiscono entrate regolari come i contributi, perché è la legge che prevede che talune prestazioni o parte di esse siano coperte con risorse provenienti dalla fiscalità generale. A queste conclusioni arrivò nella passata legislatura anche il Comitato tecnico incaricato dal ministro Andrea Orlando, su input dei sindacati, di approfondire il tema della separazione della previdenza dall’assistenza. Il Comitato concluse i suoi lavori con un documento dove si ribadiva che il canale di finanziamento delle prestazioni (contributi sociali o fiscalità generale) non può essere utilizzato come criterio per la quantificazione della spesa previdenziale per una duplice ragione: nulla osta che una spesa di carattere previdenziale sia finanziata attraverso imposte invece che con contributi, come dimostra anche la comparazione europea.
A conferma di ciò, il documento evidenziava un dato che il dibattito italiano non sembra tenere nel debito conto: nel 2019 i contributi sociali avevano coperto una quota della spesa previdenziale pari solamente al 76,3%, proseguendo una tendenziale riduzione della sua copertura nel corso degli ultimi anni. Pertanto è scorretto affermare che è aumentata la spesa per l’assistenza; la verità è che – per varie ragioni – è aumentato l’apporto dei trasferimenti del bilancio dello Stato per finanziare la spesa pensionistica.
Pensioni, ecco cos’è già operativo
Ma resta un ulteriore argomento: la separazione tra previdenza e assistenza è già operativa da decenni in base ad alcuni provvedimenti legislativi: la legge madre numero 88 del 1989 che riformò il bilancio dell’Inps e le due leggi finanziarie del 1998 e 1999; quest’ultime rivolte a sistemare i rapporti finanziari tra Stato e Inps in vista dell’entrata nell’euro.
Si trattò di un’operazione finanziaria che toglieva di mezzo un debito contabile dell’Inps verso lo Stato di 160mila miliardi di lire. Il bilancio dell’Inps ricevette un notevole beneficio. Dopo il 1989, nel bilancio Inps i trasferimenti sono contenuti nella Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno del reddito (Gias) che per legge è in pareggio perché lo Stato copre tutte le spese per le prestazioni a suo carico per legge. Comunque i trasferimenti dello Stato tramite la Gias (nel 2022 pari a 157 miliardi) si inseriscono a pettine nelle varie voci del bilancio Inps. Ai cosiddetti oneri pensionistici, in quell’anno, sono stati riservati 88 miliardi, con un aumento di 4.miliardi, rispetto agli 84 miliardi del 2021; l’aumento è riferibile prevalentemente ai contributi dello Stato per oneri relativi all’accesso ai pensionamenti anticipati con “Quota 100” e “Quota 102” nonché gli oneri per prestazioni pensionistiche alle lavoratrici dipendenti e autonome. I dati che seguono sono contenuti ed esposti con la consueta cura nell’XI Rapporto di Itinerari previdenziali.
L’importo a carico della Gias per l’anno 2022, trasferito alle gestioni a copertura degli oneri pensionistici, pari a 88 miliardi di euro, è relativo (le cifre sono arrotondate) alle gestioni pensionistiche per 40 miliardi di euro per il finanziamento: dei disavanzi delle gestioni Cdcm (i coltivatori che girano l’Italia con i trattori), Poste, ai quali si debbono aggiungere: 14 miliardi delle gestioni ex Inpdap; la copertura delle spese per gli assegni sociali, le pensioni sociali e le relative maggiorazioni erogate nell’anno per 5miliardi; gli oneri, pari a 18 miliardi di euro, destinati alla gestione degli Invalidi civili, erogazione diretta pensioni di invalidità civili e indennità di accompagnamento; 4,7 miliardi relativi ai deficit di esercizio delle gestioni dei dipendenti di alcuni Fondi Speciali Inps (spedizionieri doganali, addetti alle imposte di consumo, lavoratori portuali di Trieste e Genova e lavoratori ex Ff.Ss.); l’assunzione di quote dei trattamenti pensionistici in carico alle singole gestioni relative a particolari periodi non coperti da contribuzione o con contribuzione ridotta, al fine di favorirne l’equilibrio economico-finanziario; assunzione diretta del carico pensionistico di alcune categorie di trattamenti (pensioni erogate ai Cdcm ante 1989; prestazioni alle dipendenti del soppresso Enpao; pensioni di invalidità ante l. 222/1984 (la legge di riforma del settore) e altro (pensioni di guerra).