La storia della pensione (anticipata) di anzianità è intessuta nella stessa filigrana della storia del Paese. Per rendersene conto è sufficiente risalire alle sue origini (scheda 1).
Scheda 1
1965 – Con legge n. 903 fu introdotto nell’ordinamento dell’Ago il pensionamento anticipato di anzianità con 35 anni di anzianità contributiva. Venne abolito anche ogni divieto di cumulo, tanto che i pensionati di anzianità avrebbero potuto accedere alla prestazione senza neppure interrompere il rapporto di lavoro.
1968 – Si comprese subito che, in prospettiva, l’introduzione della pensione di anzianità era stato un errore, anche se gli oneri sostenuti furono sostanzialmente modesti (in meno di un triennio si spesero 170 miliardi di lire, l’equivalente di circa 750 milioni di euro attuali). Il Governo provò a scambiare l’abolizione del pensionamento anticipato con la concessione dell’aggancio della pensione alla retribuzione, fortemente richiesta dai sindacati. In un primo momento le confederazioni accettarono, poi la Cgil ritirò l’adesione e proclamò lo sciopero generale che, sorprendendo gli osservatori, ebbe un esito plebiscitario. I lavoratori – seppure ancora giovani – avevano già compreso che quella sarebbe stata la loro “uscita di sicurezza”. Nel dlgs n. 488 (in attuazione della legge delega n. 238) fu disposta la formula retributiva (65% della retribuzione dell’ultimo triennio, fu abolita la pensione di anzianità (salvo un trattamento transitorio fino al 1970 nel caso di disoccupazione involontaria, con liquidazione secondo la precedente formula contributiva), venne fissato un rigoroso divieto di cumulo.
1969 – Nella legge n. 153 si rafforzò il calcolo retributivo (il 74% dei migliori tre anni negli ultimi cinque, poi dal 1976, l’80%; a regime ora divenuti dieci), si garantì l’effettività del sistema di perequazione automatica, fu attenuato il divieto di cumulo ed introdotta la pensione sociale, fu ripristinata la pensione di anzianità dopo 35 anni di versamenti, inclusa la contribuzione figurativa e a prescindere dall’età anagrafica.
Dopo di allora il pensionamento di anzianità divenne una sorta di mausoleo del lavoro che nessuno osò più violare (peraltro all’inizio degli anni ’70 vennero istituite la baby pensioni nel pubblico impiego, riducendo, in alcuni casi, i requisiti vigenti già troppo generosi). Così mentre si allungava l’attesa di vita degli italiani (e con essa il periodo di riscossione dell’assegno da pensionati) si riduceva, nei fatti, l’età in cui diveniva possibile l’accesso alla quiescenza (non si dimentichi che anche l’età legale di vecchiaia era del tutto inadeguata essendo – con un minimo di 15 anni di versamenti- pari a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne). La stagione delle riforme stentò a superare il Muro di Berlino del pensionamento anticipato (di cui si fece (a)buso nel decennio della grande ristrutturazione industriale attraverso i prepensionamenti: 400mila per 50mila miliardi di lire). Il governo Amato nel 1992 provò ad elevare a 36 anni il requisito contributivo, ma fu costretto a fare marcia indietro.
Il primo governo Berlusconi, nel 1994, cadde sul tentativo di introdurre una penalizzazione economica da applicare per ogni anno di anticipo rispetto all’età prevista per la vecchiaia (una soluzione un po’ rozza, ma che avrebbe forse risolto il problema senza dover ricorrere alle soluzioni arabescate che furono adottate in seguito). Toccò alla legge n.335 del 1995 (la c.d. riforma Dini-Treu) inserire anche un requisito anagrafico (che andava da 52 a 57 anni fino al 2008) da far valere insieme ai classici 35 anni di anzianità in concorrenza con un canale solo contributivo (e quindi distinto dal parametro demografico) incamminato verso il raggiungimento, nel medesimo arco temporale, del limite di 40 anni di servizio. Successivamente, il governo Prodi aggiustò ulteriormente il tiro e soprattutto promosse, per quanto riguardava il trattamento anticipato, l’allineamento del settore pubblico con quello privato. Gli eventi ulteriori si caratterizzarono con aspetti simbolici: lo ‘’scalone’’ di Roberto Maroni, il sistema delle ‘’quote’’ di Cesare Damiano, fino alla riforma del 2011 a cui sono state attribuite le sette piaghe (immaginarie) che hanno colpito i pensionati (anzi, i pensionandi) italiani.
Tutto ciò premesso, nonostante le leggende metropolitane che continuano a circolare, anche nell’ordinamento vigente è possibile anticipare l’accesso al pensionamento (tanto che attualmente è superiore – soprattutto tra i lavoratori maschi e residenti al Nord – il numero di coloro che si avvalgono dell’anticipo rispetto a coloro che ricorrono al trattamento ordinario di vecchiaia: nel lavoro dipendente privato, nei flussi correnti, su 100 pensioni di vecchiaia ve ne sono 201 di anzianità). In sostanza, nel 2019-2020, secondo la normativa vigente, è possibile andare in pensione anticipata a 43 e 2 mesi se uomini (a 42 e 2 mesi donne) a prescindere dall’età anagrafica. L’età effettiva alla decorrenza in media è risultata – è un dato di fatto non un requisito – intorno ai 62 anni. Inoltre, se vi fosse un tetto (come ipotizzato in misura di 2-3 anni al massimo) per la contribuzione figurativa utile a ‘’fare anzianità’’ non v’è chi non veda che i periodi richiesti, oggi e domani, tenderebbero ad avvicinarsi e quasi a coincidere.
Va poi ricordato che ora vi è un contesto complessivo che ha mutato l’assetto delineato dalla riforma Fornero. L’Ape sociale (che abbisognerebbe di rifinanziamento) consente ai disoccupati e agli appartenenti a 15 categorie di lavori disagiati o soggetti a condizioni familiari particolari, di ritirarsi a 63 anni (con una contribuzione ridotta) a spese dello Stato. Con l’Ape volontaria si può ottenere un prestito conveniente, in anticipo sul trattamento spettante, a 63 anni con 20 anni
di versamenti. Se coloro che hanno diritto all’Ape sociale fossero anche “precoci” (titolari di 12 mesi di versamenti prima dei 19 anni di età) potrebbero avvalersi dell’uscita dal lavoro con 41 anni di contributi. Normative più favorevoli valgono per i lavoratori sottoposti a mansioni usuranti. A regime 200mila lavoratori fruiranno, poi, del trattamento riservato ai c.d. esodati (ovvero andranno in quiescenza con le regole vigenti prima della riforma Fornero).
È in tale contesto, alla fine di una storia lunga come la guerra dei trent’anni, che nella telenovela delle pensioni di rito giallo-verde è iniziata una nuova puntata: il vice premier Matteo Salvini (immortalato nella copertina di Time, con un’effige che ricorda quella di Henry Landru) ha precisato che, a formare quota 100 (uno dei nuovi parametri d’uscita), interverrebbe un’età minima di 62 anni, mentre per usufruire del canale di accesso alla pensione sulla base dell’anzianità di servizio, a prescindere dall’età anagrafica, sarebbero sufficienti 41,5 anni (il secondo parametro alternativo al primo).
Degli oneri occorrenti, degli effetti sulla sostenibilità del sistema pensionistico, del numero e della tipologia dei soggetti che trarrebbero beneficio e di quelli che invece pagherebbero il conto (piuttosto salato) si è scritto a iosa in questi giorni, tanto che non vale la pena di insistere, perché – come dice il proverbio – non esiste una persona che sia più sorda di chi non vuole sentire. È difficile, però, anche per i descamisados giallo-verdi, sottrarsi ad una domanda: ha un senso investire un bel pacchetto di miliardi per mandare in quiescenza delle persone ancora giovani, in larga maggioranza maschi e residenti nelle regioni del Nord, inserendole a blocchi di centinaia di migliaia in un sistema in cui resteranno a lungo (vista l’attesa di vita, un elemento del tutto scomparso dal dibattito, nonostante che sia cruciale per la sostenibilità), a carico di generazioni che dovranno sobbarcarsi la maggiore spesa senza nutrire alcuna speranza di potersi avvalere, quando verrà il loro turno, di requisiti analoghi a quelli che saranno tenuti a garantire alle generazioni precedenti?
Non è necessario attribuire ai posteri “l’ardua sentenza”. Si sta preparando – è evidente già ora – una delle più grandi abbuffate della storia pensionistica italiana: i baby boomers si apprestano ad uscire dal mercato del lavoro, perpetuando in pensione – come la luce di una stella che continua a raggiungerci anche se l’astro è spento da tempo – i postumi di una condizione lavorativa ormai archiviata dalla storia. Forse sarebbe il caso di interrogarsi non solo sugli effetti per i conti pubblici delle controriforme dei fratelli De Rege e del signor Nessuno. Siamo sicuri che la fuoriuscita dal mercato del lavoro di persone ancora giovani non creerà problemi sul lato dell’offerta in quelle regioni in cui vi è un sostanziale pieno impiego? Non sarà che alla fine si dovrà fare ricorso, nel laborioso Nord leghista, ad ulteriore manodopera straniera per “far girare” le macchine nelle officine?