Dal dopoguerra ad oggi vi sono state soltanto due leggi di riforma del sistema pensionistico caratterizzate se non proprio da una “visione”, almeno da un “progetto”. La prima è stata la legge n.153 del 1969 che ha istituito quell’ordinamento pensionistico che la seconda (legge n. 335 del 1995) ho modificato in maniera profonda seppur assumendo una transizione troppo lunga per essere ritenuta minimamente adeguata ed equa sul piano intergenerazionale.
La legge (delega) del 1969, introducendo il modello retributivo (il c.d. aggancio alla retribuzione, come si diceva a quei tempi) e prendendo per giunta a riferimento la retribuzione pensionabile degli ultimi tre (poi divenuti cinque e dieci a riforme avvenute) anni di lavoro, tendeva, in via di principio, a garantire ai pensionati un trattamento equipollente al livello di retribuzione o di reddito (perché nel 1990 i medesimi criteri vennero applicati anche ai lavoratori autonomi) raggiunto alla fine della vita attiva.
In realtà, con quel provvedimento e con quelle regole si volle soltanto erogare una pensione dignitosa a quanti avevano avuto una storia lavorativa e contributiva piuttosto accidentata nell’immediato dopoguerra. O addirittura avevano visto sfumare i loro versamenti, relativi ad attività lavorative antecedenti il conflitto, per via dell’inflazione postbellica. Infatti, gli anni di lavoro precedenti gli ultimi tre, poi divenuti cinque, servivano soltanto a determinare, a prescindere dai contributi versati, l’anzianità di servizio, allo scopo di calcolare l’importo della pensione (che nel pubblico impiego, addirittura, era equivalente all’ultimo stipendio percepito) secondo la seguente formula vigente nel settore privato: 2% x n = % della retribuzione pensionabile degli ultimi anni di lavoro.
Il 2% rappresentava il rendimento per ogni anno di servizio, “n” il numero degli anni: il che dava modo di percepire, al massimo, l’80% con 40 anni di assicurazione ( o, in proporzione, meno a seconda del numero degli anni lavorativi). Come è facile comprendere, nell’aver concesso per decenni pensioni non sostenute da un corrispondente supporto contributivo, sta la radice non solo del disavanzo pensionistico ma anche di gran parte del debito pubblico. A queste regole si aggiunsero le pensioni di anzianità che consentivano l’accesso alla quiescenza sulla base di un requisito contributivo pari a 35 anni (20 o 25 o ancora meno nel Pubblico impiego) a prescindere dall’età anagrafica, allo scopo di risarcire così i c.d. lavoratori precoci, arruolati in giovane età nei ranghi della società industriale. Così milioni di lavoratori hanno potuto accedere volontariamente alla pensione o essere costretti a farlo in qualità di esuberi dei processi di ristrutturazione produttiva ad un’età di poco superiore a 50 anni (nonostante che in seguito fosse stato inserito anche un requisito anagrafico).
Questo è l’ordinamento che, entrando in sinergia che una imponente accelerazione dell’attesa di vita, avrebbe portato, in mancanza di riordino, al collasso (con una spesa fino al 23% del pil intorno al 2030) il sistema pensionistico e le finanze pubbliche. La riforma del 1995 si fece carico di superare lo squilibrio determinato dal sistema retributivo che, in sostanza, a fronte anche dell’incremento dell’attesa di vita, tendeva a regalare ai pensionati un certo numero di anni di prestazioni non coperti dal montante contributivo (Tavola 1).
La tabella mette in evidenza – confrontando nei diversi metodi di calcolo il numero di anni coperti da montante contributivo con quelli della vita residua al pensionamento, comprensivi del periodo di godimento dei superstiti adeguatamente riproporzionato – la “rendita di posizione” del sistema retributivo. Adottando il calcolo contributivo (il montante su cui calcolare il trattamento è dato dalla somma degli accrediti annuali, rivalutati sulla base del pil nominale, moltiplicato per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età di pensionamento all’interno di un rang flessibile) si è ristabilito un sinallagma tra contributi versati e prestazione, ma lo si è fatto soltanto a partire dai nuovi assunti dal 1996, mentre chi aveva, prima di quella data, almeno 18 anni di anzianità è rimasto interamente all’interno del meccanismo retributivo; gli altri sono inclusi nel sistema misto con il criterio del pro rata, fino a quando – dopo la riforma Fornero del 2011 – il calcolo contributivo è stato esteso pro rata a tutti a partire dal 2012. Il principale difetto della legge n. 335 del 1995 (la riforma Dini) consiste proprio nell’aver scaricato l’equilibrio del sistema sui futuri pensionati, salvaguardando, soprattutto sull’aspetto-chiave, dell’età pensionabile, il più possibile gli occupati più anziani.
Questa impostazione veniva giustificata con l’alibi della previdenza complementare. Il giovane – si diceva – andrà in pensione a suo tempo con un tasso di sostituzione più basso ? Il problema è risolto. – si aggiungeva – Perché il nostro giovane potrà iscriversi ad un fondo pensione e colmare così il differenziale nel trattamento pensionistico. Salvo dover constatare, ad anni di distanza, che l’aliquota obbligatoria del 33% per i lavoratori dipendenti (anche quelle dei parasubordinati e degli autonomi sono in crescita) non consente di avere un’adeguata base economica per la previdenza complementare. Così, le successive riforme hanno cercato, non a caso, di rendere più breve ed equa la transizione, anche per ottenere dal sistema pensionistico un contributo al risanamento di quei conti pubblici che in grande misura ha contribuito a destabilizzare. Il fatto è che il modello prefigurato dalla riforma Dini e dagli aggiustamenti successivi è figlio di un progetto con la testa rivolta all’indietro, nel senso che non si pone l’obiettivo di come garantire ai lavoratori giovani di oggi – chiamati per decenni a versare un terzo del loro reddito per finanziare le pensioni in essere, poiché il sistema resta a ripartizione – un trattamento come previsto dall’articolo 38 della Costituzione. Quale è infatti la preoccupazione dei giovani e per i giovani? Non tanto quella di vedersi applicare il calcolo contributivo, perché il nuovo sistema (ci avvaliamo di termini strettamente giuridici) non produce, a fronte di una continuità e regolarità di lavoro, un , ma solo un in quanto vengono meno le rendite di posizione dipendenti dal modello retributivo. Se un neoassunto ha la fortuna di lavorare a lungo e senza interruzioni andrà in pensione con un tasso di sostituzione socialmente sostenibile anche sottoponendosi interamente al calcolo contributivo.
L’incerta prospettiva pensionistica dei giovani non deriva, dunque, dalle regole dell’accreditamento dei contributi e dal meccanismo di calcolo della prestazione, ma dalla loro condizione occupazionale precaria e saltuaria durante la vita lavorativa. Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo al lavoro, da rapporti interrotti e discontinui (senza potersi giovare, inoltre, di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tra di loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti da rapporti regolati da regimi differenti) finirà per influire negativamente anche sulla pensione. E’ evidente che occorrerebbe migliorare il modello di protezione sociale nel senso di una maggiore uniformità le tutele durante la vita lavorativa, ma nessuno può illudersi che si possa tornare ad una generalità di lavoro dipendente stabile, e quindi a poter salvare la pensione di domani attraverso la salvaguardia forzosa dei rapporti di lavoro standard, oggi.
Bisognerebbe mettere in sinergia le politiche a favore dell’occupazione dei giovani con un riordino del sistema pensionistico che avesse lo sguardo rivolto in avanti e cioè ad un modello che fosse in grado di tutelare, al momento della quiescenza, il lavoro di oggi e di domani in tutte le sue peculiarità e differenze rispetto al passato. I capisaldi di questa proposta potrebbero essere i seguenti: 1) le nuove regole dovrebbero valere solo per i nuovi assunti e nuovi occupati (quindi per i giovani); 2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un’aliquota contributiva uniforme – e pari al 24-25% – per dipendenti, autonomi e parasubordinati (si può valutare una limitata gradualità nell’operazione) dando luogo ad una pensione obbligatoria di natura contributiva; 3) sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base, ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale che faccia, a suo tempo, da zoccolo per la pensione contributiva o svolga il ruolo di reddito minimo per chi non ha potuto assicurarsi un trattamento pensionistico; 4) per quanto riguarda il finanziamento della pensione complementare sarebbero consentiti un percorso di opting out volontario e il relativo versamento del corrispettivo in una forma di previdenza complementare, di alcuni punti di aliquota contributiva obbligatoria, nei termini e con le cautele ipotizzate, in proposito, dalla riforma Fornero, in una norma programmatica rimasta sulla carta.
La proposta andrebbe attentamente approfondita, nel suo insieme, soprattutto sul piano dei costi, che sarebbero comunque inferiori a quelli teoricamente ipotizzati nei piani correnti. Essa realizzerebbe, stabilmente, una convenienza ad effettuare nuove assunzioni grazie alla previsione di un’aliquota contributiva per le imprese più ridotta di ben 8-9 punti (e quindi grazie alla diminuzione del costo del lavoro), la cui unificazione al ribasso aiuterebbe a rendere , almeno dal punto di vista pensionistico, la tipologia scelta per il contratto di assunzione. La pensione di base compenserebbe, per i lavoratori, i minori accreditamenti secondo il modello contributivo. Nel definire i parametri occorrerebbe prestare attenzione a che la somma tra pensione di base e pensione contributiva non determinino un tasso di sostituzione più elevato di quello derivante dal vecchio metodo. La riforma, nel suo complesso, riguarderebbe al massimo 3-400mila unità all’anno (la nuova occupazione, sempre che riparta l’economia).
E, quindi, presenterebbe un grado di sostenibilità ben superiore rispetto a quella derivante dai progetti all’esame del Parlamento che, in un modo o nell’altro, (o inventandosi esodati di contrabbando, come nel caso dei 4mila insegnanti, o ipotizzando una sorta di pensionamento ‘’flessibile’’ al solo scopo di ripristinare nei fatti il trattamento di anzianità) si propongono di colpire al cuore la legge Fornero . Sarà poi necessario pensare ad un meccanismo compensativo, in qualche modo retroattivo e in parte a carico del contribuente mediante il riconoscimento di una modalità di riscatto, per coloro che in questi anni sono rimasti prigionieri di un sistema che non li garantiva adeguatamente, come per esempio, gli iscritti in via esclusiva alla gestione separata presso l’Inps, quando le aliquote erano troppo basse e quindi non idonee a costituire un montante contributivo minimamente adeguato.