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Pensioni d’oro e stipendi pubblici, devastante il no della Corte Costituzionale a tagli e tasse

La Corte Costituzionale ha chiuso la porta alle leggi che istituivano contributi di solidarietà nei confronti delle pensioni d’oro e degli stipendi apicali dell’amministrazione pubblica – Due sentenze che rischiano di essere devastanti, sancendo l’impossibilità di riparare all’iniquità verticale del nostro sistema pensionistico: si può ancora rimediare?

Pensioni d’oro e stipendi pubblici, devastante il no della Corte Costituzionale a tagli e tasse

Ci fu un tempo in cui un Presidente del Consiglio, commentando una serie di sentenze così dette “additive” della Corte Costituzionale, che ampliavano a nuove categorie di dipendenti pubblici i benefici previsti solo per alcuni, accusò la Corte di contribuire allo sfascio dei conti pubblici. Non è escluso che quei tempi possano tornare.

Due recenti sentenze della Corte impongono infatti vincoli quasi insuperabili alle possibilità di intervento del potere legislativo e del governo sulla spesa per stipendi pubblici e pensioni, che rappresentano oltre il 65 per cento della spesa pubblica totale .

Si tratta delle sentenze n. 223 del 2012 e n. 116 del 2013, che hanno dichiarato l’incostituzionalità di due leggi che nel 2011 hanno istituito contributi di solidarietà, modulati per scaglioni e temporanei (fino al 2014), nei confronti dei redditi dei dipendenti pubblici e alle pensioni superiori a 90.000 euro. Si trattava di misure chiaramente miranti ad una (modesta: circa 25 milioni l’anno) riduzione della spesa pubblica corrente, attraverso la riduzione dei trattamenti economici più elevati. Obiettivo tutto sommato non irragionevole, visto che gli stipendi apicali dell’amministrazione pubblica italiana sono insolitamente alti, rispetto alle medie europee (addirittura, per i magistrati, un terzo più della Francia e più del doppio della Germania) e l’esistenza del fenomeno delle “pensioni d’oro”.

Il punto non è solo che la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di questi contributi ma che, a differenza che in passato, quando aveva fatto invece riferimento a specifici criteri di irragionevolezza e arbitrarietà, lo ha fatto in maniera così generale da pregiudicare future azioni su queste voci di spesa che si basino sull’utilizzo della leva fiscale. In primo luogo, la Corte ha ritenuto che non di taglio delle spese si trattasse, ma dell’imposizione di un nuovo tributo, che si deve allora conformare ai principi di eguaglianza e di adeguamento alla capacità contributiva enunciati dagli artt. 3 e 56 della Costituzione. Da questo punto di vista, contributi perequativi e di solidarietà imposti da esigenze di stabilizzazione devono essere quanto più possibile generali e quindi imposti a tutti, percettori di redditi pubblici e privati, dipendenti e autonomi e non a specifiche categorie, come in questo caso. Questo ragionamento si applica anche alle pensioni, poiché la Corte nota che le pensioni sono a tutti gli effetti remunerazioni, sia pure differite. Ma sulle pensioni la Corte è andata oltre: essa ha aggiunto che la pensione è intoccabile. Infatti essa è il risultato di fattispecie (i rapporti di lavoro) ormai esaurite e su cui non è più possibile agire; non c’è più rimedio: e allora intervenire sulla pensione è particolarmente discriminatorio.

Per rendersi conto perché queste sentenze della Corte siano potenzialmente devastanti, basta pensare che la questione della spesa per stupendi e pensioni è tuttora all’attenzione del governo. E che erano e sono all’esame provvedimenti volti a frenare la dinamica retributiva e pensionistica, a cominciare dal blocco dell’indicizzazione. Tra i quali sono stati considerati tributi specifici che intervenissero sui trattamenti più elevati, tributi che appaiono ora di difficile attuazione.

In questo contesto le “pensioni d’oro” rappresentano l’aspetto più eclatante della iniquità “verticale” che caratterizza il nostro sistema pensionistico. In particolare, a seguito del fatto che la riforma Dini del 1995 manteneva la pensione su base retributiva a coloro che avessero maturato 18 anni di contributi alla data di approvazione, coloro che sono andati in pensione fino ad ora e molti di coloro che ci andranno in questo e nei prossimi anni, godranno di pensioni assai più elevate (e in certi casi elevatissime in termini assoluti) di quelle a cui potranno aspirare coloro che andranno in pensione sulla base del sistema contributivo. Si tratta dell’aspetto forse più eclatante del più generale problema italiano del trasferimento intergenerazionale a spese dei giovani e a favore degli anziani, Finora l’intervento sulle pensioni è sempre stato sulle pensioni che devono ancora maturare, cioè sulle classi più giovani: l’imposizione sulle pensioni più alte cercava di intervenire su questo problema, sia pure marginalmente.

Poiché i problemi della spesa restano, ci si può chiedere se queste sentenze calino una definitiva saracinesca sulla possibilità di agire del governo e, in primo luogo, se si possa sperare in una resipiscenza della Corte. Per quel che riguarda gli stipendi, essa potrebbe anche essere possibile: in fondo la Consulta è intervenuta su contributi di solidarietà di natura temporanea; si potrebbe pensare che assumerebbe una diversa posizione qualora lo strumento fiscale fosse utilizzato per attuare un provvedimento permanente di riduzione degli stipendi pubblici più elevati. Se cosi non fosse, un’altra strada sarebbe un intervento di ridimensionamento, che paradossalmente trova (probabilmente involontario) sostegno nelle parole della Consulta, che riconosce in ogni caso che i rapporti in essere sono comunque evolutivi: se non si accettano i più bassi stipendi, si può sempre andare a lavorare altrove…..

Più complesso un intervento fiscale sulle pensioni, data le definitive parole della Corte. Il che suggerisce che un eventuale intervento dovrebbe essere basato sulla ridefinizione dei criteri che conducono alla determinazione dei redditi pensionistici, in modo che tengano conto del principio di eguaglianza. Un modo potrebbe essere di ridefinire le obbligazioni pensionistiche, comprese quelle in essere, sulla base dei contributi effettivamente versati. Il che potrebbe allora giustificare un sia pure graduale ridimensionamento delle pensioni più alte, fermo restando che per quelle sotto un certo livello potrebbe valere un criterio solidaristico.

Anche così, è facilmente prevedibile che una tale impostazione non sarebbe immune da censure di anti-costituzionalità: in particolare per il venir meno del legittimo affidamento che i pensionati eventualmente colpiti avevano maturato nei confronti degli enti pensionistici e dello Stato. Tuttavia, apparirebbe chiaro che quello di cui si sta discutendo non è il trattamento discriminatorio subito da alcuni percettori di reddito rispetto agli altri, ma il diritto di una certa fascia di anzianità di ricevere un regalo da parte di chi non ha (più) la possibilità di sperare in un trattamento economico comparabile, una volta che abbia smesso di lavorare.

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