Nel ventesimo anniversario della riforma DiniTreu (legge n.335/1995 entrata in vigore il 1° gennaio 1996), la rivista “Politiche sociali” edita da Il Mulino (con il n. 3/2015) ha pubblicato uno Special Issue contenente una serie di saggi di autorevoli studiosi (compreso uno scritto di Elsa Fornero) dedicati alle “promesse, miti, prospettive di policy” di quel riordino tanto significativo del nostro sistema pensionistico. La gran parte di questi saggi meriterebbe un riferimento specifico, tanto che è consigliata la lettura del numero della rivista diretta da Maria Luisa Mirabile (che già curava la prestigiosa pubblicazione della Cgil “La rivista delle politiche sociali” prima della sua chiusura).
Riservandoci di tornare, in una prossima occasione, su qualche altro aspetto affrontato, in questo articolo ci accontentiamo di svolgere qualche considerazione sul saggio “A vent’anni da un’occasione mancata?” di Fabrizio e Stefano Patriarca (rispettivamente un figlio e un padre che coltivano il medesimo interesse per le problematiche del lavoro e del welfare). Gli autori non si limitano a sottolineare i “profondi cambiamenti, spesso inaspettati” che si sono verificati, nella demografia, nell’economia e nel mercato del lavoro nei vent’anni trascorsi, ma tentano anche di fornire una serie di spiegazioni, peraltro convincenti, a molte domande che si pongono nel considerare gli effetti della riforma del 1995.
Innanzitutto, come è stato possibile che, nonostante quell’intervento di riordino e i successivi, ancor più radicali attuati in seguito, la spesa pensionistica abbia continuato ad accrescere il suo peso sul Pil (il punto più alto si è toccato nel 20142015) senza riuscire neppure a contrastare la povertà tra gli anziani? Una prima risposta deriva dalla recessione economica che a fronte di una spesa, al numeratore, fisiologicamente in crescita ha determinato un vero e proprio crollo al denominatore, del Pil, innalzando quindi l’indice del rapporto a un livello tale che, in assenza della riforma del 2011, sarebbero stati vanificati gli sforzi e i sacrifici di un ventennio rivolti a rendere sostenibile la spesa pensionistica.
In Italia, si è iniziato a rivedere il sistema pensionistico, ereditato del 1969, a partire dal 1992, con la riforma Amato. Eppure nei vent’anni che intercorrono tra il 1991 e il 2011, nonostante le riforme, la spesa pensionistica sul Pil è cresciuta di oltre 3 punti, di cui quasi 2 tra il 2001 e lo stesso 2011. Ma c’è un altro aspetto che, nel periodo considerato, ha contribuito in larga misura a limitare e a procrastinare gli effetti che il legislatore (nel 1995 fortemente influenzato dalle organizzazioni sindacali che scrissero una bella pagina di capacità riformatrice) intendeva realizzare. A voler semplificare al massimo ce ne scusiamo con gli autori i filoni di riflessione contenuti nel saggio, ci sentiamo di affermare che alla base di una transizione ritenuta universalmente troppo lunga e annoverata tra le principali cause del ridimensionamento degli obiettivi della legge n.335/1995 sta l’eccessiva cautela nel correggere, prima, e nel superare, poi, il pensionamento anticipato di anzianità.
In proposito Fabrizio e Stefano Patriarca forniscono dei dati molto interessanti allo scopo anche di sfatare troppi luoghi comuni che circolano in modo acritico a proposito di tale problematica, soprattutto se la si mette in connessione con il mantenimento del calcolo retributivo per i soggetti che alla fine del 1995 avevano un’anzianità pari o superiore a 18 anni (rimandano l’estensione pro rata anche a costoro soltanto all’inizio del 2012 grazie alla riforma Fornero). In sostanza come scrivono gli autori: “Nei fatti hanno goduto del vecchio sistema di calcolo proprio le platee di lavoratori che nel sistema retributivo determinavano maggiormente le sperequazioni distributive e le pressioni sull’innalzamento della spesa alle quali si voleva rimediare con la riforma”.
Il fattore centrale di questo squilibrio prosegue il saggio è in maggior parte connesso al fattore “età di accesso alla pensione” con un enorme incremento delle pensioni di anzianità caratterizzate da età di pensionamento attorno ai 5758 anni per gli anni 20002010 (favorite, peraltro, anche dalla liberalizzazione del cumulo tra pensione e reddito). Ne derivano diverse conseguenze: in Italia il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra i 55 e i 64 anni è il più basso di tutti i Paesi considerati e si situa al di sotto sia della media europea che di quella dell’Eurozona; la permanenza media sul mercato del lavoro è ben di cinque anni inferiore alla media europea, di sette anni più bassa di quella della Germania e del Regno Unito e di quasi 10 anni rispetto a quella olandese Tale differenziale diventa ancor più ampia per le donne: l’Italia è l’unico Paese in cui la durata media della vita attiva delle lavoratrici è inferiore a 25,5 anni.
A tutto ciò corrisponde una speranza di vita per gli ultra 65enni allineata con la media europea. Al dunque, si lavora per meno anni, si pagano più pensioni, si ha la stessa aspettativa di vita (gli aspetti demografici sono del tutto assenti nello sgangherato dibattito aperto in questi ultimi mesi sul tema delle pensioni). Ma non siamo ancora arrivati alla fine della storia. Tra il 1998 e il 2014 sono state liquidate in Italia più di 7 milioni di pensioni di vecchiaia e di anzianità. Di queste 3,5 milioni sono di vecchiaia per un ammontare pari a 33 miliardi, con un importo medio della pensione pari a 750 euro mensili e un’età media di accesso al trattamento pari a 63 anni. Di contro, le pensioni di anzianità liquidate, nello stesso periodo, sono state 3,6 milioni, con un importo cumulato di spesa pari a 76 miliardi, una pensione media pari a 1.616 euro mensili e con un’età di accesso pari a 58 anni. Così, ben 3,6 milioni di persone con un’età media di 58 anni hanno percepito pensioni di livello medio alto, pari a più del doppio di quelle erogate, in media cinque anni dopo, a chi è andato in pensione di vecchiaia. Ancor più clamoroso un altro dato contenuto nel saggio.
Nel 2001 la voce di spesa più elevata riguardava le pensioni di vecchiaia (61,7 miliardi) contro i 58,2 miliardi dei trattamenti di anzianità; nel decennio successivo è cambiata profondamente la struttura della spesa: quella delle pensioni di anzianità è aumentata del 104%, mentre la spesa per la vecchiaia del 23%. Negli anni del nuovo secolo vi è stato un incremento di circa 89 miliardi dei quali ben 60 addebitabili ai maggiori oneri per gli assegni di anzianità, mentre è di 14 miliardi il contributo alla crescita dovuto alla vecchiaia (la parte residua è attribuita alle altre tipologie). L’incidenza della spesa pensionistica riguardante i soggetti in età compresa tra 55 e 64 anni è in Italia di poco inferiore al 4% del Pil (contro il 2,2% della media europea). L’impatto sul debito pubblico del pensionamento di anzianità negli anni 2000 può essere valutato in circa 30 punti di maggiore indebitamento rispetto al Pil nel 2012. Venenum in cauda, i Patriarca smentiscono anche le accomodanti teorie secondo le quali il pensionamento anticipato servirebbe alle categorie degli operai con accesso precoce nel mercato del lavoro.
Infatti, tra il 2008 e il 2012, dei 988mila nuovi pensionati di anzianità solo il 44% si collocava al di sotto dei 1.500 euro mensili per una spesa complessiva di 6,2 miliardi pari al 26% di quella totale. In questa platea, i dipendenti privati rappresentavano il 18% con una spesa pari al 10% del totale. La maggioranza delle pensioni di anzianità (il 55%) percepiva trattamenti più alti di 1.500 euro mensili per un ammontare pari al 75% di quella totale. In conclusione, negli anni 2000, vi sono state circa 3,5 milioni di nuovi pensionati con un’età media di pensionamento di 5758 anni, con prestazioni medioalte, appannaggio delle classi medie (rispetto alle quali operai e impiegati dei bassi livelli sono una larga minoranza) la cui incidenza copre attualmente la gran parte delle prestazioni pensionistiche previdenziali e per le quali lo squilibrio tra contributi e prestazioni percepite è molto forte.