La questione dell’età pensionabile può essere spiegata ricorrendo all’apologo del pulcino che si perde tra la neve della steppa, viene soccorso (non diciamo come) da una mucca poi divorato da un lupo. La morale è la stessa: non è detto che un governo che abbassa l’età pensionabile sia necessariamente un amico (ed un nemico quello che la innalza). Infatti, in regime fascista, nel 1939 (con rdl n. 636) l’età pensionabile fu ridotta a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne, a modifica di quanto era in vigore in precedenza e cioè: 65 anni, con possibilità di anticipo a 60, ma con penalizzazioni economiche variabili, in funzione dell’ampiezza dell’anticipazione, dal 37% al 10% dell’importo della pensione.
La Repubblica di Salò fu ancora più generosa e ridusse l’età legale di altri cinque anni. Ovviamente questa modifica non fu recepita dalla legislazione della nuova Italia: l’età pensionabile di vecchiaia restò fissata a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne fino alla riforma Amato del 1992 (che incrementò gradualmente i limiti di cinque anni). Nel frattempo era stato istituito (in via definitiva con la legge n.153 del 1969) anche il pensionamento anticipato, sulla base della sola anzianità contributiva e a prescindere dall’età anagrafica.
Ora, a leggere la piattaforma elaborata da Cgil, Cisl e Uil ed illustrata nei giorni scorsi dai segretari generali, è difficile non scorgere un percorso di sostanziale condivisione con le proposte formulate dal governo in materia di pensioni (ammesso e non concesso che si arrivi a dei punti fermi nella legge di bilancio). Anzi, ancora una volta si dimostra che, messi a confronto con la demagogia del potere, i sindacati finiscono, nella generalità dei casi, per dare il peggio di se stessi.
Si è molto discusso negli ultimi mesi dei costi che comporterebbe l’introduzione delle quote (100 e 41 sono i numeri magici della riffa) proposte dall’esecutivo. I sindacati hanno colto l’occasione per rilanciare proponendo loro quella demolizione totale della riforma Fornero che la maggioranza giallo-verde stenta ad attuare per motivi di finanza pubblica. Così Cgil, Cisl e Uil hanno fornito un assist importante alle manovre irresponsabili del governo (le stesse per le quali è sotto il tiro della Commissione Ue).
Per fortuna, nessuno se ne è accorto o vi ha dato importanza, come meritano delle organizzazioni che non sanno o non vogliono farsi carico delle loro responsabilità di fronte al Paese e alle future generazioni.
Che cosa chiedono Cgil, Cisl e Uil? Che sia due volte Natale e festa tutto l’anno, con misure sfasciacarrozze che non sono neppure venute in mente, a quanto si è detto finora, alla pregiata ditta di demolizioni Di Maio & Salvini: a) stabilire 41 anni di contribuzione per andare in pensione a prescindere dall’età; b) procedere alla separazione della spesa previdenziale da quella assistenziale (qualcuno li avverta che è operante da decenni; ndr); c) prevedere misure per le donne come il riconoscimento di 12 mesi di anticipo per ogni figlio; d) riconoscere il lavoro di cura; e) eliminare l’attuale meccanismo di adeguamento automatico all’aspettativa di vita (boom! ndr); f) realizzare una pensione contributiva di garanzia per i giovani (così ci togliamo il pensiero di trovare loro un lavoro, ndr); g) rilanciare la previdenza complementare; h) ripristinare dal 1°gennaio 2019 la piena rivalutazione delle pensioni; i) risolvere i problemi degli esodati (la nona salvaguardia, forse? ndr) e prorogare opzione donna; l) tutelare, in modo strutturale dal punto di vista previdenziale, le categorie che rientrano nell’Ape sociale; m) eliminare (alla faccia dell’adeguatezza dei trattamenti, ndr) i vincoli che, nel metodo contributivo, condizionano il diritto alla pensione al raggiungimento di determinati importi dell’assegno (1,5 e 2,8 volte l’assegno sociale).
Per quanto riguarda quota 100, la ‘’madre’’ di tutte le controriforme giallo-verdi, i sindacati chiedono di agire su di una flessibilità in uscita a 62 anni. ‘’In questa direzione – sostengono – quota 100 è una strada utile sapendo che da sola non risponde appieno alle esigenze di molti lavoratori, come ad esempio le donne, i giovani, il lavoro discontinuo, intere aree geografiche del Paese”. Quest’ultimo riferimento riguarda le regioni del Mezzogiorno. E’ arcinoto che i trattamenti anticipati sono una prerogativa, nei fatti, maschile e settentrionale. Se così è (e sarà) anche nel caso dei 450mila pensionati in più vantati da Matteo Salvini, si sono chiesti i sindacati se, al Nord, l’offerta di lavoro sarà tale da compensare questi esodi? Anche ammesso che le aziende dei signori Brambilla siano pronte ad assumere un giovane al posto di un anziano prepensionato, sono sicuri i dirigenti sindacali che questi giovani li troveranno davvero? Che l’offerta sarà all’altezza della domanda di lavoro? Oppure verrà in evidenza un banale problema demografico che continua ad essere ignorato?