Nella legge di bilancio per il 2019 sarà finalmente resa giustizia? Saranno tagliate le pensioni d’oro di quegli scrocconi che superano i 4mila euro netti al mese? Anche su questo tema, che ha alimentato oltre ogni misura consentita quell’invidia sociale che è divenuta il sentimento dominante del nostro vivere (in)civile, le forze della maggioranza si presentano divise. Eppure, attente come dichiarano di essere ai contenuti del contratto, avrebbero di che orientarsi, sia pure vagamente.
Leggiamo insieme il dispositivo. “Per una maggiore equità sociale riteniamo altresì necessario un intervento finalizzato al taglio delle c.d. pensioni d’oro (superiori ai 5.000,00 euro netti mensili) non giustificate dai contributi versati”. Per la verità, in queste poche e laconiche righe ci sono due soli aspetti che sembrano chiari: il taglio dovrebbe operare per i trattamenti che superano il limite indicato (poi ridotto a 4mila euro netti); sarebbero colpite soltanto le prestazioni non giustificate dai versamenti contributivi.
Per quanto riguarda le modalità tecniche dell’intervento l’indirizzo non è chiaro, anche se i frequenti riferimenti al ricalcolo hanno indotto a ritenere che il modello da seguire anche per le pensioni d’oro sarebbe stato quello adottato nella manomissione dei vitalizi degli ex deputati. Poi, a primi d’agosto a conquistare la scena sulla pista del Circo Barnum delle pensioni è stato il Pdl (AC 1071) a firma congiunta dei due capigruppo della maggioranza alla Camera D’Uva (per il M5S) e Molinari (per la Lega).
È bastato poco per accorgersi che il ricalcolo (ancorché proclamato a tutto spiano) non prendeva minimamente in considerazione i contributi versati, ma l’età del pensionamento, finendo, nei fatti per penalizzare in modo retroattivo quei trattamenti di anzianità in difesa del quali la Lega aveva fatto cadere ben due governi (nel 1994 e nel 2011) nonché quelli futuri, gli stessi in favore dei quali il contratto di governo prevede una modifica sostanziale della riforma Fornero (le ormai note quota 100 e quota 41).
Sempre che superino gli 80mila euro all’anno lordi e per le frazioni liquidate con il calcolo retributivo. Le critiche più severe a tale progetto sono venute da un esperto di vaglia vicino alla Lega come Alberto Brambilla, il quale, sotto l’egida di Itinerari previdenziali, ha pubblicato il 14 agosto una nota redatta insieme a Gianni Geroldi e Antonietta Mundo. È sufficiente leggere la Premessa del documento per comprendere quanto sia radicale il dissenso degli autori nei confronti del Pdl D’Uva-Molinari.
Premessa – Il ricalcolo delle pensioni cosiddette d’oro o di privilegio, applicando il metodo di calcolo contributivo, così come previsto dal Progetto di Legge (PdL) presentato da Lega e M5S in data 6 agosto 2018, all’articolo 1, non è assolutamente un ricalcolo ma solo una riduzione delle pensioni basata sul rapporto tra i coefficienti di trasformazione relativi alle età di pensionamento effettivo e quelli relativi alle età di pensionamento stabilite nella tabella A, allegata al PdL; in pratica tutta l’operazione è basata esclusivamente sulle età di pensionamento con forti penalizzazioni per le pensioni di anzianità e quelle con 40 anni di contributi. Tutto ciò implica una rimodulazione delle regole in modo retroattivo ed è quindi un’operazione che può presentare una lesione della certezza del diritto e profili di incostituzionalità. Inoltre, soprattutto per le pensioni decorrenti dal 2019, il punto di riferimento è costituito dai requisiti previsti dalla riforma Fornero, proprio quella che i due partiti al Governo volevano cancellare e che invece viene ulteriormente rafforzata in peius. Infine, definire queste prestazioni come d’oro o di privilegio, oltre che essere tecnicamente non corretto, tende a farle percepire come un’ingiustizia e quindi mina la coesione sociale, fattore indispensabile in una società complessa come l’attuale.
La proposta alternativa è quella di un contributo di solidarietà a cui sarebbero sottoposte tutte le pensioni a partire da 2.000 € lordi mensili (di cui 0,40% verrebbe versato al fondo per la non autosufficienza e il resto al fondo occupazione) che crescerebbe progressivamente fino al 12%-15% per i trattamenti più elevati; il contributo sarebbe calcolato sulla base dei singoli scaglioni di pensione (non sull’importo totale) ed avrebbe una durata limitata ad un triennio, allo scopo di dare avvio alla costituzione e alla operatività dei fondi citati. E di non incorrere nella sanzione della Consulta.
A quanto si sa, il Pdl d’iniziativa parlamentare sulle pensioni d’oro rimane “in attesa di giudizio”, mentre, nelle ultime ore, è cambiata la posizione relativa alla determinazione di quota 100, che dovrebbe anticipare l’applicazione del requisito di quota 41. Matteo Salvini – invadendo ancora una volta le competenze del ministero del Lavoro – ha dichiarato che non saranno previsti limiti anagrafici (mentre era stata ipotizzata per l’accesso un’età minima di 64 anni).
Il che ovviamente si ripercuote sull’entità della copertura finanziaria richiesta. Secondo Stefano Patriarca, responsabile della società di consulenza Tabula, consentire l’accesso alla pensione con la quota 100 (somma tra età e contributi, fissando comunque un minimo di 35 anni di versamenti) potrebbe costare, nel 2019, 11,5 miliardi per arrivare a quasi 15 a regime, il terzo anno dall’avvio della normativa.
Nel 2017 – come ha spiegato lo stesso Patriarca – sono state liquidate dall’Inps nel solo settore privato circa 290.000 nuove pensioni previdenziali dirette e tra queste circa 160.000 di anzianità. In media chi è andato in pensione anticipata aveva 61 anni. “Se oltre a quota 100 si prevedesse anche la possibilità di uscire con 41 anni di contributi a prescindere dall’età – ha concluso Patriarca – il costo nel primo anno sarebbe di 12,3 miliardi e di quasi 16 miliardi a regime”.
La nuova normativa – secondo stime dell’Inps – allargherebbe la platea dei trattamenti anticipati di 750mila unità già nel primo triennio di applicazione. Ma ogni giorno ha la sua pena. Così nel giro di poche ore Salvini ne ha sparata un’altra. Ci sarà un’età minima ma a 62 anni. Ciò significa che a partire da 38 anni di versamenti, a 62 anni, si potrà andare in quiescenza. Ci sarà dunque un ulteriore fiorire di pensioni anticipate. E i costi? Eccoli secondo le diverse ipotesi della fervida fantasia giallo-verde.
Riepilogando. Con la nuova idea di Salvini, nel 2019 sarebbero 11,2 miliardi e un maggior numero di trattamenti compresi tra i 350 e i 400 mila. C’è poi una questione di opportunità. In vista della presentazione della legge di bilancio ha un senso dare fiato alla bocca senza pensare a ciò che si dice?