Nell’intervista rilasciata domenica scorsa al Manifesto il segretario del Pd Enrico Letta, dopo avere annunciato urbi et orbi che il centro-sinistra in caso di vittoria alle elezioni provvederebbe a cancellare il Job Act fortemente voluto dal suo arcinemico Matteo Renzi, ha trovato anche il modo di informarci che la sinistra riformista di cui Tony Blair è stato l’emblema e il maggior ispiratore – di cui lo stesso Renzi è stato un epigono – è finita, ha fatto il suo tempo e ora va rottamata. Alle sue critiche al Job Act hanno già risposto Giuliano Cazzola su FIRSTonline e Pietro Ichino sul Foglio. In breve: Letta, forse perché all’epoca viveva a Parigi, quando parla del Job Act dà l’impressione di non sapere di cosa stia parlando. Ne parla male per compiacere i post-comunisti che stanno nel Pd (Orlando e Provenzano) e per ammiccare ai 5Stelle e a Fratoianni ma, quanto ai contenuti di quella riforma, semplicemente li ignora.
La “cattiva coscienza” della sinistra: rimuovere problemi anziché trovare soluzioni
Diverso è, invece, il caso delle critiche che Letta rivolge a Blair e a cui nessuno nel Pd, neppure la componente riformista alla quale pure Blair ha fornito molte idee, ha sentito il dovere di replicare. Quello di Letta, più che un invito alla revisione critica del pensiero di Blair, sembra esser una “damnatio memoriae”. La stessa che fu riservata all’azione politica di Craxi e che in tanti (e fra questi c’è anche Letta) vorrebbero oggi riservare anche a Matteo Renzi. Una “damnatio memoriae” che ha un solo obiettivo: cancellare la memoria stessa delle idee e dell’azione politica di coloro ai quali è riservata. Ennesima manifestazione, questa, di quella “cattiva coscienza”, così tipica della sinistra, che la porta a rimuovere i problemi piuttosto che fare i conti con la propria storia.
L’errore di Blair: appoggio incondizionato alla guerra americana in Iraq
È del tutto evidente che Tony Blair ha commesso degli errori e che uno di questi è stato particolarmente grave e gravido per lui di conseguenze negative. Ci riferiamo all’appoggio incondizionato che l’Inghilterra ha dato alla guerra americana in Iraq, anche se non è stato l’unico Paese a farlo. Ma Blair è stato certamente il più determinato, non per convenienza ma per una profonda convinzione. Blair considerava quella in Iraq una guerra giusta: una guerra per la democrazia contro l’assolutismo islamico, per la liberazione dei paesi arabi dalla barbarie Jaidista, per l’emancipazione delle donne dal Burka e del mondo dal terrorismo. Si sbagliava ma a sbagliare con lui furono in tanti: Stati, uomini di cultura, grandi giornali come l’Economist che ancora oggi se ne scusa. Blair ha sbagliato e, come accade nei Paesi democratici, per questo ha pagato. Ma Blair non è stato soltanto l’uomo della guerra in Iraq. È stato anche e soprattutto il leader laburista che ha saputo rinnovare radicalmente il suo partito, che lo ha emancipato dalla subordinazione alle Trade Union, che lo ha liberato dalla eredità del corporativismo e che, grazie alle riforme fatte dai suoi governi, lo ha rimesso in contatto con la società inglese portandolo alla vittoria per ben tre elezioni consecutive. Se la sinistra inglese è uscita dall’angolo in cui l’avevano costretta i suoi dirigenti e la Thatcher, il merito è solo ed esclusivamente di Tony Blair, e questa non è davvero cosa da poco.
Blair ha corretto le riforme della Thatcher ma si è guardato bene dallo smantellare tutto
Blair ha avuto innanzitutto l’intelligenza di non proporsi di smantellare le riforme realizzate dalla Thatcher (alcune delle quali sacrosante) quanto piuttosto di correggerne le asperità e le storture. In secondo luogo, ha avuto il coraggio di rendere irreversibile per il partito Laburista la scelta della “società aperta”. Una idea, questa, che è storicamente patrimonio del liberalismo inglese ma che Blair ha saputo fare propria coniugandola con quella dell’inclusione e della giustizia sociale che sono proprie del socialismo. Da questo connubio fra liberalismo e socialismo è nata la Terza via di Blair. Comunque la si giudichi è grazie a questa scelta che l’Inghilterra è tornata a crescere. I governi laburisti guidati da Blair hanno fatto leva sulla globalizzazione, sull’apertura dei mercati e sull’innovazione, notoriamente le tre bestie nere della sinistra radicale. Ma proprio Blair, con la sua azione di governo, ha dimostrato che, se bene utilizzate, nessuna di queste leve è nemica dei lavoratori e che insieme possono assicurare la crescita e il progresso per tutti. Naturalmente anche su questo terreno si sono commessi degli errori, il più evidente dei quali (dovuto però più a Clinton che a Blair) è stato il modo con cui si è realizzata la deregulation dei mercati finanziari. Ma nel complesso l’Inghilterra e il mondo hanno tratto grandi benefici dalla globalizzazione e dalle politiche sociali che in molti Paesi, anche se non in tutti, l’hanno accompagnata.
La politica di Blair: un intelligente “compromesso” fra liberalismo e socialismo
Quella che Enrico Letta vorrebbe consegnare alla “damnatio memoriae” della storia sembra essere proprio questa ricerca, che è stata alla base della politica di Blair, di un “compromesso storico” fra il liberalismo e il socialismo. Eppure, è precisamente a questo compromesso o, se si preferisce, a questa sintesi, che, con buona pace di Letta, hanno lavorato in passato e lavorano ancora oggi, non solo i laburisti e i socialdemocratici europei ma anche molti liberali. Nella sua mirabile storia del liberalismo lo storico inglese Edmund Fawcett ricorda che quando il liberalismo, figlio dell’illuminismo inglese e scozzese, si trovò a dovere fare i conti prima con la democrazia (una testa un voto) e poi con il socialismo (la questione sociale) seppe scendere a compromesso con queste teorie ed è da questa contaminazione (Historical compromises, li chiama Fawcett) che derivano la moderna democrazia parlamentare e lo Stato sociale il cui ideatore, peraltro, non era un laburista bensì un liberale, William Beveridge.
Il desiderio di Letta somiglia a una perdita di identità del Pd
Tony Blair si è mosso lungo questa via e così ha fatto il Partito Laburista sino a quando Corbyn non lo ha dirottato su altri terreni nei quali si è poi drammaticamente impaludato. Enrico Letta pensa che a sbagliare sia stato Blair? Pensa che la sua ricerca di una sintesi fra le grandi idee del liberalismo e quelle del socialismo democratico sia stata inutile e sia meglio abbandonarla? È legittimo crederlo anche perché sono in molti nel Pd che la pensano in questo modo e non solo fra i post-comunisti. C’è, infatti, in quel partito una componente che origina dalla sinistra cattolica (da Dossetti, per esempio) che non è né riformista né liberale e che non è aliena da queste posizioni. Ma se è questo quello che in molti nel Pd pensano, allora sarebbe davvero auspicabile che queste diverse opinioni e orientamenti culturali si confrontassero nel Partito in modo aperto. Oggi purtroppo nel Pd come negli altri partiti non c’è un confronto culturale interno comparabile con quello che c’era nel Pci, nella Dc o nel Psi. Per l’esattezza non c’è alcun confronto. Le Fondazioni come Open, Italiani Europei e altre potrebbero sopperire a questa necessità se non fossero nel mirino di una magistratura gretta, ignara della politica, incompetente e retriva che non sa distinguere il confronto culturale dalla attività politica quotidiana. Non resta allora che ricorrere allo strumento più democratico di cui un partito dispone, quello del congresso nel quale si confrontino liberamente le diverse tesi. Se Letta vuole fare davvero un regalo alla politica e anche al suo partito è questo quello che dovrebbe fare.