Che cosa sarebbe meglio per il Pd: la “scissione” oppure la “palude”? Se l’alternativa fosse davvero questa, allora la scissione sarebbe preferibile, purché, ovviamente, a provocarla non siano futili motivi ma radicate e non mediabili divergenze sulle scelte strategiche di fondo.
Ad esempio sull’Europa. Che cosa vogliamo che faccia l’Italia? Che difenda l’Euro e incoraggi il cammino dell’Europa sulla via di una sempre più stretta unione economica e politica (linea Draghi) oppure che si ritagli un proprio (inesistente) spazio di manovra? E sul debito pubblico, quale strategia si intende adottare? Quella che attraverso riforme strutturali punta alla crescita della nostra economia e della nostra produttività (in una parola, alla crescita della ricchezza prodotta) oppure quella che privilegia la redistribuzione del poco che creiamo dirottandolo una volta verso i giovani e l’altra verso i pensionati? Anche sulle riforme avviate dal Governo Renzi, dal Jobs Act alla Buona Scuola, dalla PA alla Giustizia, cosa deve proporsi il Pd? Di implementarle per portarle a compimento come vorrebbe la maggioranza, oppure di fare precipitosamente marcia indietro, come chiedono Bersani e Speranza?
E, infine, come si pensa di abbattere il differenziale nella crescita della produzione, della produttività e dell’occupazione in Italia rispetto agli altri paesi europei? Rimuovendo le “cause italiane” di questo differenziale (burocrazia, bassa qualità dell’istruzione, carenze nella ricerca, etc) oppure continuando ad attribuire la colpa agli altri paesi che, come la Germania, crescono più di noi perché hanno fatto le riforme necessarie in tempo utile? Sono tutte questioni dirimenti, alle quali altre se ne potrebbero aggiungere e a cui il congresso del Pd dovrà rispondere. Dalle risposte che verranno date dipenderà il giudizio sulla sua identità e sulla validità della sua proposta programmatica.
Per questo è fondamentale che Renzi si presenti all’assemblea di domenica con una piattaforma politico-programmatica chiara, inequivocabile e, soprattutto, non emendabile, nel senso che la si può implementare ma non alterare. Il confronto dovrebbe avvenire su questo terreno ed è su questioni di questa natura, e non sulla data del congresso, che va verificata la possibilità di stare uniti.
Bersani e Speranza pensano che il Jobs Act deve essere smantellato e che la Cgil abbia ragione su tutto. Bene, Renzi deve allora rendere ancora più esplicito il fatto che il Jobs Act è il primo passo in direzione di un radicale rinnovamento del Mercato del Lavoro. Se si vuole introdurre davvero (come è giusto e necessario che sia) il reddito di inserimento per i giovani che cercano un lavoro e quello di reinserimento per chi, avendolo perso, ne cerca uno nuovo, allora deve essere chiaro che è l’intero edificio degli attuali ammortizzatori sociali, degli Uffici Pubblici del Lavoro e della Formazione deve essere radicalmente riorganizzato. In questo campo non serve una restaurazione, come vorrebbe la Cgil, serve invece una rivoluzione. Lo stesso vale per la PA e per la Scuola. Le riforme fatte sono soltanto un inizio.
Se si vuole che la Pa e la Scuola tornino a rappresentare, come ha chiesto il Governatore De Luca, una opportunità per i giovani, allora devono essere radicalmente riorganizzate sulla base del merito (cui devono corrispondere stipendi adeguati) della produttività (che può essere misurata) e, anche, della mobilità (non esiste il diritto all’impiego sotto casa). In tutti questi campi è necessario un vero e proprio cambio di paradigma se vogliamo allinearci agli altri paesi europei. Di esempi se ne potrebbero fare tanti altri, a cominciare dalla Giustizia. Quello che però conta davvero è che il congresso tracci una netta linea di distinzione fra il riformismo e il conservatorismo e fra il riformismo e l’antagonismo e che Renzi abbia la forza per collocare, su questa linea, il Pd.
Ed è precisamente a questo proposito che si ripropone la questione del Partito e del suo destino. Il Pd di Veltroni è giunto al suo capolinea, non solo perché si è rivelato un amalgama mal riuscito (cr. Di D’Alema) ma anche per la sua ambiguità di fondo. Si diceva garantista ma poi si è alleato con Di Pietro, che di certo garantista non era. Si proclamava riformista ma nel suo Pantheon ideale avevano trovato posto soltanto Berlinguer e Moro, certamente grandi italiani ma dei quali tutto si può dire tranne che fossero riformisti. Ambiva a cambiare le cose ma non però l’art. 18, le province, le regioni o il bicameralismo paritario. Il Pd di Veltroni è stato, insomma, un partito a bassa intensità riformista e ad alto tasso di ambiguità. Ed è proprio il nodo dell’ambiguità che il congresso e Renzi dovrebbero definitivamente sciogliere.
In Francia nel campo della sinistra si è proposto un problema simile. Il Ps ha preferito Hamon a Valls, che sarebbe un po’ come se il Pd preferisse Speranza a Renzi, ma il vuoto che si è creato nel campo riformista francese è stato prontamente coperto dal giovane e brillante Macron con il suo movimento “En marche”, sintesi perfetta del meglio del pensiero e della tradizione liberale e di quella socialista. È una fortuna per la Francia la quale, grazie a Macron, oggi non si trova disarmata di fronte alla minaccia del nazionalismo della Le Pen, ma in Italia una vittoria di Speranza, D’Alema e Bersani sarebbe un tragedia perché il paese potrebbe davvero cadere nelle mani di Beppe Grillo e di Casaleggio.
Un incubo che va assolutamente scongiurato. L’unica possibilità di evitarlo è che Renzi vinca il congresso e che lo vinca sulla base di una chiara prospettiva riformista capace di convincere ed unire la maggioranza degli italiani. Una scelta cosi netta potrebbe provocare una scissione? Forse, ma in questo caso una scissione, anche se non auspicata, sarebbe comunque preferibile ad un mediocre compromesso che, quello si, consegnerebbe il Pd e il riformismo italiano ad una sconfitta forse irreparabile a tutto vantaggio di una forza oscura e minacciosa come quella dei 5 Stelle.