Nel linguaggio paramilitare, cui sovente la sinistra fa ricorso, la questione decisiva, quando si devono scegliere degli alleati, è l’esatta individuazione del “nemico principale” da battere. La questione del programma è ovviamente molto importante ma viene, per cosi dire, dopo. In passato (chiusa l’orrenda parentesi del socialfascismo) il ruolo del nemico principale è toccato al fascismo prima e al terrorismo poi. Oggi, con ogni evidenza, dovrebbe spettare al populismo che, nella sua variante Italiana (i 5 Stelle) non solo rischia di compromettere il nostro legame con l’Europa ma, e questo è l’aspetto più grave del problema, mette a rischio la nostra stessa democrazia rappresentativa.
L’essenza del populismo, infatti, come ha chiarito molto bene il settimanale inglese The Economist, non è la demagogia (i 5 stelle promettono tutto e il contrario di tutto, ma non sono i primi a farlo e non saranno neanche gli ultimi) “l’essenza del populismo è la visione manichea che essi hanno della società. Per loro la società è divisa in due classi: il Popolo e i Potenti. Il Popolo è una entità univoca, animata da una medesima volontà (l’odio per i politici) mentre i Potenti sono, per loro natura, corrotti ed infidi, dediti ai loro interessi personali e abili nell’utilizzare le Istituzioni Intermedia per opprime il Popolo”.
I Populisti non si limitano a criticare la Politica, la rifiutano. Il confronto fra forze sociali e politiche diverse e la ricerca di un ragionevole compromesso, che è poi l’essenza stessa dell’arte del governo, ai loro occhi e nella loro propaganda diventa mercimonio, imbroglio o, per usare l’orribile termine romanesco introdotto nel gergo politico italiano da D’Alema, un inciucio. È questa la ragione per la quale rifiutano anche solo l’idea di fare delle alleanze politiche ed è la stessa ragione per la quale non riescono ad accettare un confronto parlamentare civile.
Nella loro propaganda il Parlamento non è ancora diventato quell’aula sorda e grigia di cui parlava Mussolini, ma è il luogo nel quale, secondo Di Battista, si aggirano brutti ceffi. Ed è comunque il luogo nel quale un manipolo di deputati squadristi dei 5 stelle ha potuto dare impunemente l’assalto all’Ufficio di Presidenza senza che la Presidente dell’Assemblea li sanzionasse come avrebbero meritato. Se questa non è l’anticamera di una avventura populista alla Maduro o alla Peron poco ci manca. Eppure Bersani e D’Alema non la pensano cosi ed è su questa divergenza di valutazioni che si è consumata la rottura fra Pd e Mdp.
Per il Pd i 5 Stelle sono il nemico principale, per Mpd i nemici sono Renzi e Berlusconi. Mpd considera i 5 stelle degli interlocutori e dei concorrenti con i quali ci si può anche alleare per governare. Bersani si è gli spinto sino a dire che il movimento 5 Stelle è il “nuovo centro”(l’erede della Dc di De Gasperi!) e che, lungi dal rappresentare una minaccia sarebbe, in realtà, la diga che può fare da argine al tracimare della rabbia e della frustrazione dei ceti medi e popolari impoveriti dalla crisi.
Per il Pd, invece, è vero esattamente il contrario: il populismo dei 5 stelle rappresenta la minaccia più grave per la democrazia italiana perché è il prodotto della dissoluzione del sistema politico repubblicano nato nel dopo guerra, cosi come il movimento fascista delle origini (prima, cioè, che si facesse Stato) era, come Gramsci prima e De Felice poi hanno ampiamente dimostrato, il prodotto della dissoluzione del sistema politico dell’Italia liberale.
Per questa ragione i 5 stelle non possono essere considerati come la medicina, amara ma necessaria, da prendere per curare la grave malattia che ha colpito la democrazia italiana perché di quella malattia essi sono la manifestazione più grave. L a divergenza su questo punto non è rimediabile.
D’Alema e Bersani cercano di nascondere questo fatto con la più banale delle scuse: l’impossibilità di raggiungere una ragionevole intesa col Pd sulle politiche per lo sviluppo. Questa scusa la possono utilizzare Ferrero, Turigliato, Fratoianni e Civati, gli esponenti cioè della sinistra radicale ed antagonista. Non la può utilizzare, per decenza, chi, come D’Alema, ha fatto il Presidente del Consiglio e in quella veste non ha esitato ad autorizzare l’uso delle basi italiane per bombardare Belgrado, non ha sollevato obiezioni e ha anzi favorito l’Opa a debito su Telecom Italia che ha scassato il gruppo telefonico e ha tentato, senza riuscirci, di riformare il mercato del lavoro in una direzione non poi cosi diversa dal Job act.
La verità è che è mancata la volontà politica. Se ci fosse stata una piattaforma programmatica fra forze autenticamente riformiste di ispirazione social democratica (come dice di essere D’Alema) e forze liberaldemocratiche e cattoliche (Renzi, Prodi) sarebbe stata del tutto possibile. Per quanto grandi possano essere le differenze nessuna fra queste forze vuole uscire dall’Europa o dall’Euro e, anche sulle questioni delle politiche per lo sviluppo, se si ragionasse con realismo e onesta intellettuale un accordo sarebbe possibile.
Nessuno ha la ricetta in tasca, ma alcune idee su come aprire la via ad una nuova era economica ci sono e sono patrimonio comune delle forze riformiste in tutta Europa. Le ha riassunte in modo esemplare l’Economist: “Per aprire la via ad una nuova era di sviluppo – ha scritto il settimanale Inglese- si deve cercare di rimettere in moto il capitalismo utilizzando lo Stato per correggere i fallimenti del mercato e per piegare gli interessi corporativi. Al tempo stesso si deve incoraggiare l’iniziativa imprenditoriale perché è la sola in grado di trarre abbondanza dalla scarsità e di creare dinamismo dove c’è stagnazione”.
A pensarci bene questa è anche la grande lezione di Keynes, ma anche di Shumpeter e, per stare all’Italia, è la lezione di Beneduce, di Menichella e di Federico Caffè. Quando si riesce, con politiche adeguate, a creare un circuito virtuoso fra l’azione del Governo, l’iniziativa imprenditoriale e il mercato, come è accaduto spesso in passato, allora l’economia torna a crescere e cresce anche l’occupazione. I 5 stelle non saranno mai il partito della crescita perché sono per la “decrescita felice”, sono pauperisti e assistenzialisti.
L’onere di promuovere la crescita spetta alle forze riformiste e tanto più lo potranno fare quanto più saranno unite. D’Alema e Bersani si sono chiamati fuori e cosi facendo hanno fatto un danno a se stessi e al paese. Dispiace per loro. Le forze riformiste se ne devono fare rapidamente una ragione e riprendere con slancio la loro iniziativa.