La sceneggiata è finita. Dopo Civati, un altro esponente di punta della maggioranza dem come Stefano Fassina – che non ha mai accettato la sconfitta nelle primarie e nel congresso del partito ed è sempre stato contro tutte le riforme del Governo Renzi – esce dal Pd.
Fassina, dopo aver perso tutte le battaglie interne contro Renzi, aveva deciso da tempo di abbandonare il Pd e ha solo aspettato l’occasione, che, a suo dire, gli è stata fornita dal ricorso del Governo al voto di fiducia sulla scuola.
Davanti ai militanti del circolo Pd delle Capannelle a Roma, Fassina ha affermato di “prendere atto che non vi sono più le condizioni per andare avanti nel Pd e insieme ad altri proveremo a costruire altri percorsi che portano non a una testimonianza minoritaria ma a fare una sinistra di governo su un’agenda alternativa”.
“La scelta del Governo di porre il voto di fiducia sul disegno di legge sulla scuola – ha aggiunto – è uno schiaffo al Parlamento e all’universo della scuola” perché “il maxi-emendamento del Governo si limita a qualche ritocco cosmetico”. Poi un altro attacco a Renzi: “La sua svolta liberista non funziona e non è stata condivisa”. Di quale svolta liberista parli Fassina non si capisce ma nel momento della rottura i dettagli contano poco.
In realtà che Fassina abbia collegato le sue dimissioni dal Pd alla riforma della scuola non è casuale perché la minoranza dem fa parte di quel blocco conservatore trasversale che si oppone da sempre alle riforme e che non ha nessuna intenzione di cambiare l’Italia se non con ricette già sconfitte in passato.
In secondo luogo Fassina spera di trovare uno spazio a sinistra – malgrado l’insuccesso della lista Civati in Liguria – facendo da cinghia di trasmissione della Cgil di Camusso che si batte contro tutte le riforme e che non a caso ha organizzato una dura opposizione sociale alla riforma della scuola, spesso confondendosi con i Cobas.