Il gioco si fa duro e la tesissima riunione della Direzione del Pd segna un punto di svolta se non proprio di non ritorno. Le novità che sono emerse sono tre e solo in piccola parte riguardano lo scontatissimo scontro pregiudiziale tra il segretario-premier e la minoranza dem, che ieri ha raggiunto livelli grotteschi, ma investono invece lo scenario del referendum costituzionale, la sorte dell’Italicum e le prospettive stesse non solo di Matteo Renzi e del suo Governo ma della legislatura in corso.
Certo la minaccia della minoranza Pd di contraddire platealmente se stessa votando No al referendum dopo aver approvato la riforma in Parlamento è un unicum probabilmente planetario, ma del resto un unicum è da sempre il fatto che il partito che oggi esprime il capo del Governo italiano covi nel suo seno un’opposizione interna che è diventata il più feroce avversario del premier e che riserva a Renzi critiche sempre più astiose che non ha mai fatto nemmeno ai governi di destra di Silvio Berlusconi. D’altra parte l’ex premier Massimo D’Alema, che ieri ha in qualche modo tenuto a battesimo la svolta intransigente della minoranza dem, ha pubblicamente teorizzato che la riforma costituzionale di Renzi è peggiore di quella a suo tempo immaginata da Berlusconi, dallo stesso D’Alema affossata.
Ma il punto chiave dello scontro tra Renzi e la minoranza del Pd riguarda lo scenario post-referendum con alcune rilevanti novità. Se vince il Sì’ si rafforza la stabilità dell’Italia, si consolida la premiership di Renzi, si avvia il nuovo congresso del Pd e forse si apre la revisione della riforma dell’Italicum – come ha suggerito il ministro Franceschini, sul cui ruolo pro-Renzi o più probabilmente post-Renzi si confrontano già diverse scuole di pensiero – e la legislatura può proseguire fino alla sua fine naturale o quasi. Proprio il pronunciamento di Franceschini, che si è detto favorevole all’introduzione del voto e del premio di coalizione piuttosto che del voto e del premio di lista, è certamente la seconda più importante novità, dopo i giri di valzer della minoranza dem. Una mossa ambivalente e non priva di ambiguità quella del ministro sulla cui vera natura sarà il futuro a dire.
La più rilevante delle novità politiche emerse dal braccio di ferro nella Direzione del Pd è però un’altra ed è l’indicazione di Renzi, pur nel rispetto delle prerogative del Capo dello Stato, dell’ineluttabilità dello scioglimento del Parlamento e del ricorso alle elezioni anticipate nel caso in cui il Sì’ perdesse il referendum. Il segnale del premier è chiaro: se perdo, non posso restare a Palazzo Chigi ma la coerenza e il rispetto del voto popolare mi impongono di lasciare e con me non può che cadere anche il Governo. Ma ieri Renzi ha fatto un passo in più e ha lanciato un altro segnale – e qui sta la novità più grossa – quando ha fatto capire che, insieme alle sue dimissioni e a quelle del suo Governo, ci sarebbero inevitabilmente le elezioni anticipate perchè andrebbe in crisi anche il Parlamento. E’ un segnale rivolto alla minoranza interna che sogna un governo di unità nazionale senza Renzi per preparare le elezioni solo dopo aver varato una nuova legge elettorale e un nuova riforma costituzionale, nell’illusione che sia un gioco da ragazzi districare in pochi mesi nodi così complessi, e che pensa, malgrado tutte le delusioni fin qui subite, di coinvolgere per la prima volta i riluttanti grillini in un’azione di governo e di riforma. Errare è umano, ma persevare è diabolico.
Insomma, dopo di me il diluvio e dopo di me le elezioni anticipate, manda a dire nemmeno tanto velatamente Renzi, perchè i renziani, che ad oggi sono la grande maggioranza del partito, non tradirebbero il loro leader e non darebbero il via libera a un governo senza Renzi, prima di un nuovo congresso. Ma in caso di sconfitta renziana al referendum, potrebbe scattare la variabile Franceschini? Tutto può succedere e in politica i colpi di scena sono sempre all’ordine del giorno, ma sarebbe difficile anche per il manovriero ministro dei Beni Culturali pensare alla Presidenza del Consiglio sulle ceneri non solo del renzismo ma anche del Pd e senza fare i conti con la caduta verticale della credibilità riformatrice dell’Italia e con la spada di Damocle dei mercati finanziari.
In realtà, in un mondo interconnesso come il nostro, a decidere un ipotetico dopo-Renzi all’indomani del referendum non sarebbero i nuovi apprendisti stregoni della politica italiana ma semplicemente i mercati, come ben ricorda Silvio Berlusconi quando pensa all’estate del 2011. E’ la dittatura dei mercati? No, è la democrazia dei mercati, bellezza, che è sempre meglio delle trame da paese della vecchia politica.