Pietro Nenni amava dire che, se è vero che la politica non si può fare con i sentimenti, è ancor più vero che non la si può fare con i risentimenti. Suggerirei ad Enrico Letta (e forse anche a Carlo Calenda) di riflettere su queste parole del vecchio leader socialista perché sembra proprio che nel suo rapporto con Matteo Renzi e con Italia Viva a prevalere più che la ragione politica sia proprio il risentimento personale, anche se i giochi elettorali sono ancora aperti e nelle ultime ore il segretario del Pd ha detto di voler “porre veti a nessuno”.
Campo riformista: chi è fuori e chi è dentro
All’indomani della defenestrazione di Draghi, Letta aveva proclamato con una certa solennità e inusuale chiarezza che nel campo riformista non c’era posto per i populisti e per i sovranisti. In pratica, se in Europa Melenchon da una parte e Orban dall’altra sono fuori da questo campo, in Italia, oltre a Salvini e alla Meloni, ne sono fuori i 5Stelle e i gruppi dell’estrema sinistra di Fratoianni e Bonelli.
Ne fanno parte invece a pieno titolo tutti coloro che hanno sostenuto con lealtà e convinzione il governo Draghi e che si sono opposti alla sua defenestrazione. In quest’area si collocano perciò, oltre al Pd, Azione di Calenda, più Europa della Bonino, Italia Viva di Renzi e il nuovo raggruppamento di Di Maio nonché coloro che, come Brunetta, Gelmini e Carfagna sono usciti da Forza Italia perchè non intendono più sostenere il fronte sovranista.
Il Pd tra Speranza, Fratoianni e Calenda
A chi spetta l’onere di federare quest’area? A rigore di logica dovrebbe spettare al Pd e a Letta. Ma cosi non sembra essere. La prima mossa di Letta è stata quella di recuperare Speranza e i naufraghi di Articolo Uno i quali, sia detto fra parentesi, furono coloro i quali, sotto la guida di Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, promossero un movimento per il No alle riforme istituzionali del governo Renzi di cui facevano parte e che come deputati avevano votato. E lo fecero mentre ancora erano dentro al partito, cosa questa che nel Pds di D’Alema sarebbe costata loro l’espulsione immediata.
Forse Letta che proviene dalla Dc non se ne è reso conto ma con questo gesto magnanimo ha in realtà replicato una vecchia liturgia comunista. Nel Pci chi usciva da destra (a cominciare da Cucchi e Magnani osarono criticare Palmiro Togliatti) era un “traditore” mentre chi usciva da sinistra veniva considerato “un compagno che sbaglia”, che può sempre essere recuperato.
Il diverso atteggiamento del Pd nei confronti di Bersani (comprensione e recupero) e quello riservato a Renzi (un odio che neppure Craxi ha avuto modo di conoscere con tale intensità) la dice lunga su quello che cova nell’ala post-comunista del Pd (Orlando, Provenzano e altri).
La seconda e ancora più significativa mossa è stata quella nei confronti di Sinistra Italiana di Fratoianni e dei Verdi di Bonelli. Non c’è un solo punto dell’agenda Draghi che costoro condividano e non c’è un solo punto di possibile convergenza fra l’agenda vegano-Thunbergiana di Bonelli e quella del Pd, per non dire di quella di Cingolani. Quale valore aggiunto porta al campo riformista questa convergenza? Nessuno, e neppure un voto. L’unica cosa a cui serve è dare un contentino alla sinistra del Pd.
Ma anche il confronto con Azione di Calenda non sembra andare come dovrebbe, complice forse il pessimo carattere del medesimo che lo porta a dare la precedenza a questioni del tutto secondarie, quali le obbligatorie competenze professionali dei futuribili sottosegretari, anziché concentrarsi sui nodi veri da sciogliere nel campo della politica energetica (sfruttamento del Gas nazionale e nucleare), in quella del lavoro (revisione del reddito di cittadinanza e riforma del mercato del lavoro), della giustizia, del fisco e via dicendo.
Il confronto tra Renzi e il Pd
Il confronto all’interno dell’area riformista deve servire a superare le ambiguità e a chiarire i molti “non detto”. Solo così si può arrivare a solide convergenze come quelle cui pervengono dopo lunghe trattative i partiti tedeschi quando si coalizzano per governare.
Con Renzi, invece, il confronto non sembra essere neppure cominciato. Eppure Renzi è quello che ha aperto la via a Draghi. Se il tentativo di Zingaretti e Orlando di reclutare i cosiddetti responsabili scovati da Ciampolillo fosse riuscito noi avremmo ancora il Governo Conte bis.
Renzi è anche quello che con più coraggio ha affrontato il problema delle riforme istituzionali e dell’ ammodernamento del Paese ed che ha portato il Pd al 40% dei voti alle europee.
Perché allora non confrontarsi anche con lui e con Italia Viva? Si dice che sia un interlocutore difficile, ma certo Calenda non lo è da meno. A me sembra che la vera ragione stia nel fatto che confrontarsi con lui (ma lo stesso vale per Calenda) rischia di mettere a nudo le contraddizioni che vi sono nel Pd su alcuni temi cruciali nel campo della politica economica e sociale. Si preferisce così glissare su queste cose e accampare scuse: è impopolare, non porta voti o addirittura ce li fa perdere. Meschinità insomma.
Giunti a questo punto, e visto che Letta vuole essere il front runner del Pd ma rifiuta decisamente il ruolo di federatore dell’area riformista, si pone il problema di chi potrebbe assolvere a questo ruolo e la risposta più ovvia è che questo ruolo competa soprattutto a Calenda ma anche a Renzi.
C’è fra il Pd di Letta e la Lega di Salvini una vasta area che dovrebbe coalizzarsi per partecipare unita alle elezioni lasciando aperta la via di una alleanza politica col Pd al dopo elezioni visto che prima, per preminente responsabilità del Pd, questo non sembra essere possibile o è comunque molto difficile. Trovare una intesa sulla piattaforma programmatica declinando l’agenda Draghi non dovrebbe essere un problema, così come le forme organizzative in cui questa Alleanza Repubblicana può concretizzarsi possono essere ragionevolmente trovate, nell’interesse del Paese e della nostra democrazia. Purché ovviamente lo si voglia fare.